Dopo ventotto anni di purgatorio Fred Otash non ce la fa più: «Da mangiare c’è solo cibo da aereo (classe economica). Niente alcol, niente intrighi vivaci, niente donne che soggiogano la tua volontà». Nella speranza di accorciare la pena butta giù i ricordi dei suoi anni di gloria e vergogna, di ricatti e scandali fatti esplodere sulle colonne del più celebre e ignominioso di tutti i tabloid, Confidential. Negli anni Cinquanta, il bel Freddie «teneva in pugno Hollywood» decidendo quali segreti svelare e quali tenere nascosti in cambio di un congruo compenso: è fatto del suo racconto l’ultimo romanzo di James Ellroy, Panico (Einaudi, «Stile Libero», pp. 387, euro 19,50).

Nel 2012, Ellroy aveva già pubblicato un racconto lungo basato sulle presunte memorie di Otash, in quel caso dettate dall’aldilà direttamente allo scrittore, che oggi figura come prima parte di questo romanzo. Non era la prima volta che Fred Otash, personaggio realmente esistito come quasi tutti quelli che affollano Panico, tentava la penna del maestro del noir moderno.

Nel 1989 Ellroy intendeva farne uno dei protagonisti del suo capolavoro American Tabloid: l’assassino di John Kennedy. Lo incontrò a Miami, lo studiò, assorbì i suoi racconti in una serie di colloqui debitamente compensati. Poi ci ripensò.

Tabloid protagonisti
Otash gli sembrava poco affidabile: cosa sarebbe successo se, dopo l’uscita del romanzo, si fosse presentato in Tv per dire che erano tutte favole e che non era lui il killer di JFK? Ellroy preferì ripiegare sul personaggio inventato di Pete Bondurant, e quando la morte del settantenne ex investigatore, nel 1992, risolse il problema si era ormai troppo affezionato a Bondurant per cancellarlo e ricominciare da capo.

Di certo Otash sembra uscito di peso da un romanzo di Ellroy. Nella sua storia di Confidential, uscita nel 2018, la studiosa Samatha Barbes lo descrive come «la quintessenza dell’hard-boiled, ultra-macho investigatore privato del dopoguerra». Libanese, ex marine esperto nel combattimento corpo a corpo, ex poliziotto violento e spesso anche corrotto, nel 1954 aveva aperto un’agenzia di investigazioni private che si occupava soprattutto di spiare le star di Hollywood alla ricerca di quei segreti torbidi e di quei piaceri inconfessabili che, sbattuti improvvisamente in prima pagina, spiattellati con allusioni troppo chiare per non essere afferrate anche dalla più ingenua casalinga, fecero la fortuna di Confidential.

Era inevitabile che prima o poi James Ellroy dedicasse un intero romanzo a quei tabloid che nella sua opera sono una presenza permanente. Sin qui aveva camuffato, ribattezzandolo Hush-Hush, il periodico che nel giro di appena tre anni, tra il 1954 e il 1957, aveva stracciato il mito dorato di Hollywood.

Ora gli restituisce il vero nome. Robert Harrison, spregiudicato editore che negli anni della guerra si era inventato le pin up e grazie alle loro formose curve si era arricchito, lo aveva rubato a un ciclo di libri scandalistici oggi dimenticati, ma che all’inizio degli anni Cinquanta vendevano negli Usa milioni e milioni di copie: New York Confidential, Chicago Confidential, Washington Confidential, Usa Confidential.

Li firmavano due giornalisti, Jack Lait e Lee Mortimer, che non nascondevano le loro simpatie di destra, l’omofobia estrema in perfetta assonanza con gli umori nazionali dell’epoca, il razzismo esplicito, l’ossessione anticomunista.

Ellroy aveva già riconosciuto il suo debito con loro e con il tabloid a cui regalarono il nome intitolando L.A. Confidential il principale romanzo del primo «L. A. Quartet», il libro che lo impose come maestro.

All’inizio Harrison progettava di svelare gli altarini della politica e di Broadway. Cresciuto nelle strade di New York, detestava Hollywood.

La curiosità morbosa del pubblico lo convinse a cambiare idea: assoldò Otash, si concentrò sulla città dei sogni. Quei sogni non erano fatti solo di celluloide: le majors disponevano di apparati poderosi e temibili il cui compito era nascondere i vizi dei divi, presentarli come irreprensibili, identici nella vita ai personaggi che interpretavano sullo schermo.

Dovevano essere allo stesso tempo grandi star e «Folks», persone comuni nelle quali gli spettatori potessero pienamente identificarsi. Confidential, con i suoi fari sempre accesi sui particolari più scandalosi e proibiti, lacerò quel velo una volta per tutto, demistificando il sogno.

Le storie a volte erano inventate e spesso esagerate ma altrettanto spesso erano vere. Durò poco: nel 1957, dopo un processo in cui aveva rischiato di perdere tutto, Harrison si impegnò a pubblicare solo storie edificanti. Confidential smise di mordere, le vendite crollarono ma l’innocenza del sogno hollywoodiano non fu più recuperata.

La fascinazione che i tabloid dei Cinquanta esercitano su James Ellroy va molto oltre il particolare d’epoca, la nota di colore. Il suo obiettivo è la stessa demistificazione che operò Confidential, su scala ancora più vasta e riapplicata alla storia americana recente.

Se scelse di intitolare American Tabloid il libro in cui smantella l’ultima grande favola americana, il mito smagliante di John Fitzgerald Kennedy, non è per il ruolo in fondo marginale che svolge in quel romanzo la stampa scandalistica. A contare è soprattutto il riconoscimento e l’omaggio rivolto alla scuola nella quale l’autore si è formato e allo stile dozzinale di cui si è impadronito e che ha reso letteratura.

Quando Otash dice, alludendo a Confidential, «Abbiamo partorito un linguaggio lurido e lo abbiamo reso nostro… Io penso e scrivo in allitterazioni algoritmiche. La lingua deve sferzare con mano pesante. Liberare mentre offende», a parlare è Ellroy.

La trama del romanzo è complessa e confusa eppure ipnotica e avvincente. L’elenco delle star del cinema e della musica che figurano in situazioni sordide basterebbe a riempire un’enciclopedia sulla Hollywood degli anni Cinquanta. Lo stile è volutamente esagerato, le allitterazioni esorbitano, il gusto per il grottesco esonda. Panico non è affatto «un classico Ellroy», nonostante l’ambientazione consueta.

Allegro sarcasmo
Al posto della componente tragica campeggia qui un intento apertamente satirico, un’esaltazione beffarda e quasi autoironica della volgarità.

Ellroy si diverte. Trasforma Otash in uno dei suoi tipici personaggi, però più scanzonato, meno oscuro, un tipo da purgatorio e non da inferno. Assegna all’attrice di cui era invaghito da ragazzo, Lois Nettleton, il ruolo di grande e infelice amore di Fred: la reinventa, le dedica il libro.

Tutt’altro che un’opera minore, Panico serve a Ellroy per raccontare, dietro la fiera delle oscenità e la giostra degli interessi abietti, una cesura storica nella cultura di massa, alle origini di quella odierna, incluso l’«infantile Internet»; e a illustrare, per questa via, anche la genesi del suo stile e dei suoi temi. Se in I miei luoghi oscuri aveva messo in piazza se stesso e indugiato sulla componente livida del suo lavoro, qui svela le radici della propria opera e lo fa con una dose inedita di sarcasmo, un sarcasmo quasi allegro.