Ormai (con l’età) tendo sempre più a praticare il suggerimento di Carmelo Bene, che consigliava di non dare alcuna importanza alle date, scandalizzando i professori – comunque mi pare fosse proprio il 1977 (estate) quando, con Ellis Donda, Michele Mancini, Giuseppe Perrella, Renato Tomasino e il sottoscritto, facemmo uscire il primo numero della rivista Fiction. Cinema e pratiche dell’immaginario, di cui riuscimmo, con gravi sacrifici finanziari, a pubblicare solo cinque numeri (ci aiutò in parte, con molta generosità, Bernardo Berolucci).

Fu allora che potei misurare in tutta la sua ampiezza, come architetto, l’estensione dei territori della mia ignoranza, accanto ad Ellis, che era in grado di leggere Rilke nell’originale tedesco, anche se l’impostazione lacaniana della rivista tendeva a livellare un po’ le differenze. A partire da Rilke, e in particolare dalla quarta delle Elegie duinesi, Ellis aveva già girato un cortometraggio (21 minuti), intitolato Engel und Puppe, che ora verrà presentato a Trieste, nell’ambito del festival Milleocchi, edizione XVIII, diretto da Sergio Grmek Germani (altro vecchio amico), per la cura di Cecilia Ermini e Stefano Miraglia, assieme ad altri due film (che non conosco) da Ellis girati negli anni 80 (Parigi 50, l’esistenza immaginata e Il corpo rubato).

Tuttora non so una parola di tedesco, ma per fortuna ho più familiarità con l’architettura: Loos, Art nouveau, Jugendstil… Dal castello di Duino, come emergendo dalle antiche mura, sbuca una sorta di novello, grottesco, allegro Nosferatu, munito di ombrello per ripararsi dal sole. Dalle rovine parte l’Angelo, come se gli angeli, a cominciare da quello di Benjamin, non potessero avere a che fare altro che con le rovine; ma questo Angelo arriva a Vienna per costruire, non per distruggere. Di quale Vienna si tratta? È la Vienna di oggi (o meglio, del 1975, data del film), oppure la Vienna dell’inizio del XIX secolo?

Nessuna delle due, direi. È una Vienna senza tempo, di carta, disegni, prospetti architettonici e vecchie fotografie. Figurette disegnate a tratto davanti a facciate architettoniche oscillanti tra il maestoso e il frivolo. Sfaccendati sostano a veder scorrere l’acqua sotto i ponti. La macchina da presa sembra voler penetrare attraverso finestre dipinte, salire e scendere rampe di scale solo fotografate. Rossella Or indossa un abito bianco da Angelo, con un grande cappello guarnito di fiori. Gioca con i bastoncini dello shanghai, ma non sembra molto abile.

Davvero viene da concludere che tutti gli Angeli siano un po’ inabili, che si trovino a loro agio solo nel regno della poesia (ma l’architettura può farne parte). In questo, somigliano alle marionette o alle bambole, hanno la stessa loro anima, che solo i fanciulli sono in grado di percepire – i fanciulli, che con le bambole non giocano, ma stringono sodalizi fraterni. I fanciulli vogliono crescere, vogliono al più presto diventare adulti, corrispondere alle aspettative generali – non ricevono che incitamenti in tal senso. Le bambole no, tacciono, non si azzardano a mettere bocca né a dare consigli. Accanto a loro, il bambino è libero, può farne quello che vuole. Accanto a loro, non esiste passato, non esiste futuro: è l’eterno presente, il quadrato magico dell’infanzia, compresa l’interrogazione al Padre, dove Rilke incontra Kafka, e perfino Dante, che (a quanto pare) fu ospite anche lui, secoli prima, dello stesso castello a Duino.
Maestosa e frivola ho chiamato prima l’architettura viennese di cui Donda mostra le immagini – ma la frivolezza è apparente, è solo maschera, scenario, inteso a nascondere la serietà lugubre delle operazioni (finanziarie) che vi si svolgono, alle quali ogni interiorità è subordinata. Schoenberg e Strauss.

Più tardi, dopo essersi occupato del segno e del corpo di Zorro, dopo aver continuato a indagare sui rapporti tra musica e notazioni matematiche, Donda ha scritto un libro che mi ostino a considerare fondamentale sui rapporti tra corpo,visione e cinema. Parlo di Metafore di una visione. Onton, Logos, Eidos (del 1983), che comincia non a caso con una citazione da Spinoza: «La mente umana non percepisce un corpo esterno consistente in atto, se non attraverso le idee delle affezioni del suo corpo».
Affezioni? L’affezione, l’idea d’affezione più estrema è quella della morte, che Donda illustra con fotogrammi tratti da La terra di Dovzenko e disegni a essi ispirati, secondo un procedimento che nel libro si ripete di continuo. Il vecchio muore serenamente, circondato dalle mele appena cadute dall’albero. Fiori e frutti invece sfiorano, in funzione drammatica, il trasporto funebre del giovane assassinato…

Sto semplificando troppo, me ne rendo conto. Il discorso di Ellis è complesso, legato anche a formule e nodi lacaniani; credo di poter dire, però, che questo è un libro-cinema, da leggere e da vedere. Gli schizzi e i disegni configurano sempre l’indagine strutturale sulla direzione degli sguardi: le ombre, gli specchi, i riflessi, da Nosferatu a Greta Garbo fino a Pasolini e Kubrick, passando per i primi piani estatici della Falconetti nella Passione di Giovanna d’Arco dreyeriana: lancinante Reale lacaniano, in grado di mettere in crisi qualunque idea di tranquilla riproduzione della realtà.

Può non sembrare, ma in realtà salta agli occhi: questo è un libro preliminare a un impegno didattico che Ellis ha successivamente perseguito con amore, insegnando cinema ai ragazzi delle scuole medie (cfr. per esempio il lavoro su L’amico ritrovato). Insegnando cinema, vale a dire: insegnando a leggere, guardare, scrivere, riflettere, disegnare, filmare. Io, per me, saluto l’amico ritrovato.