Due giganti dell’arte, un fiume che scorre tra musica e danza, una preziosa “performance” afroamericana che parla un linguaggio universale. Questo è The River, il terzo di un trittico di balletti (“Ailey, Limón, Rhoden”) che il Teatro dell’Opera di Roma ha affidato al direttore David Levi e tenuto in cartellone dal 9 al 16 aprile.

Si sorvola su due delle tre performance, peraltro più che pregevoli (And So It Is… del coreografo Dwight Rhoden, su pagine di J.S. Bach; The Moor’s Pavane di José Limon, musiche di Henry Purcell), per concentrarsi proprio su The River. In questo balletto, creato nel 1970, si fondono una suite composta da Duke Ellington (prologo ed epilogo con undici “quadri”) e le coreografie di Alvin Ailey che le ideò per l’American Ballet Theatre, una grande compagnia di base classica. Duke (1899-1974) ed Ailey (1931- 1989) nelle rispettive carriere sono sempre sfuggiti a qualsiasi stereotipia riuscendo, ciascuno nel proprio ambito artistico, a mantenere salde radici nella comunità e nella cultura afroamericane ampliando, però, a vastissimo raggio la loro produzione.

Ellington fin dai primi anni quaranta lavorò su ampie partiture (Black, Brown and Beige è del 1943) attirandosi allora le antipatie della critica “classica” e jazz ma era talmente in anticipo sui tempi da spiazzare molti con i suoi vividi pannelli sonori. Per Ailey “”The River è un caso speciale nella produzione del grande coreografo americano – scrive Alfio Agostini nell’accurato programma di sala – , giustamente noto come autore di uno stile proprio, fuso nel gran magma della danza moderna americana ma pur sempre radicato nello spirito, nei ritmi, perfino nella dinamica fisica dei neri d’America”.
E’ esattamente ciò che si è percepito attraverso la musica e la danza sul palcoscenico del teatro Costanzi. La coreografia di Ailey (ripresa da Clifton Brown con la supervisione di Masazumi Chaya), i sobri quanto efficaci costumi di Christina Giannini, le luci di Chenault Spence (riutilizzate da Agostino Angelini), la musica diretta con il giusto approccio da David Levi, le sette coppie di ballerini alternate a duetti e trii hanno fatto pulsare la “danza moderna americana” con in chiara evidenza l’apporto del jazz in termini di ritmo, armonie, dimensione metropolitana, “modernità novecentesca”.

The River gioca sul parallelo/metafora tra un fiume che fluisce dalla sorgente alla foce e sul viaggio sentimentale di una coppia (passione, amore, gelosia…), in una continua dialettica (molto “call and response”) tra singoli e collettivo. Duke Ellington aveva composto temi solari (con in evidenza corno, arpa, flauto e violino) innestando su una tessitura ibrida classico-jazzistica vigorose parti di batteria, ritagliando spazi pianistici e sfruttando anche tempi ternari. Tra i vari “quadri” emergono uno con scansione afrolatina – dove si muovono con eleganza e sensualità sette coppie di ballerini – , un altro ricco di riff e swingante in cui risuona un corale blues, l’epilogo che combina coreografia collettiva e ‘fortissimo’ orchestrale.