Conosciuto in Italia soprattutto per il suo fortunato Dipinti e lacrime. Storie di gente che ha pianto davanti a un quadro, James Elkins è senz’altro tra i più influenti e discussi studiosi di arte e storia dell’arte degli ultimi decenni. La sua produzione, tanto ampia quanto eterogenea, decisamente irrispettosa delle rigide categorie (gerarchie) e cronologie che organizzano, e non di rado affliggono, gli studi storico-artistici nel nostro paese, affronta questioni di cultura visuale e di teoria della critica, di semiotica delle arti e di storia culturale, interrogando con piglio vivace e curioso aspetti e figure del passato e del presente dell’arte senza lasciarsi troppo intimidire dal peso della tradizione e dalla vastità dei temi (La pittura cos’è. Un linguaggio alchemico è, giusto per fare un esempio, il titolo di un libro uscito nel 2012 a cura di Tiziana Migliore). Quella di Elkins, docente di Storia dell’arte alla School of the Art Institute di Chicago, è insomma un’attitudine critica spregiudicata che negli ultimi anni ha fatto del confronto con i lettori un metodo, una pratica di elaborazione teorica che si alimenta nel dialogo con quanti seguono live il suo lavoro sui differenti social network: prima di prendere la forma del libro, i testi più recenti di Elkins infatti vivono e si modificano online, esponendo l’officina del pensiero e della scrittura ai commenti e alle domande del popolo della rete.
La dichiarata intenzione è quella di «resistere alla tentazione di tracciare una bozza più o meno definitiva e di riconoscere il carattere aperto e mai concluso dell’argomento», offrendo il materiale di studio a un lavorio critico plurale, incondizionato e imprevedibile. O almeno così dovrebbe essere, perché in realtà, a dar retta proprio a Elkins, di imprevedibile e di incondizionato resta ormai ben poco nella scrittura (e nel pensiero) della storia dell’arte. È questa, infatti, l’esplicita tesi di The End of Diversity in Art Historical Writing North Atlantic Art History and its Alternatives (De Gruyter, Berlin/Boston , pp. 224, € 33,95), il libro in cui lo studioso americano ha fatto reagire le riflessioni e le esperienze, gli incontri e le letture degli ultimi anni con la questione di come si scrive oggi la storia dell’arte. Argomento di analisi da parte di Elkins non è infatti l’oggetto, sempre più vasto e globale, della storia dell’arte, ma il modo in cui i tanti temi ormai entrati nel mobile campo d’indagine di questa disciplina vengono via via trattati e restituiti in scrittura.

Colleghi e amici per il mondo
Al di là della conclusione a cui Elkins giunge, già dichiarata nel titolo, il libro è interessante e rivelatore per la sua genesi, che egli chiarisce non soltanto nell’introduzione ma anche, e forse di più, nelle tre pagine di ringraziamenti. Perché i ringraziamenti qui non contengono solo il consueto elenco di figure istituzionali, di intelligenze e affetti solidali, ma si offrono come una efficace cartina al tornasole per comprendere il processo attraverso cui l’autore è arrivato a concludere che «the age of discovery is over» e che è un ristretto gruppo di accademici, di università, case editrici e libri a fornire «the model for the world’s art history», determinando così una sostanziale omogeneità negli studi storico-artistici. La lunga teoria dei nomi dei colleghi e degli amici che hanno ospitato Elkins in giro per il mondo, nei paesi baltici come nell’Africa del sud, in Cina, in Svezia o in Papua Nuova Guinea, dice di una pratica di viaggio e di incontro che dal 2000 ha visto lo studioso impegnato in oltre cinquanta paesi (l’Italia, va detto per inciso, non è fra questi) alla ricerca non di arte o di artisti sconosciuti – l’èra delle scoperte è finita, come si è detto – ma di dinamiche attive di relazione e di, piccola, trasformazione in grado di disturbare l’inesorabile processo di omologazione della scrittura della storia e della critica dell’arte, una scrittura che, più o meno consapevolmente, si mostra ovunque informata al canone proposto, ormai alcuni decenni fa, dalla rivista statunitense «October» e dal volume, Art since 1900. Modernism, antimodernism, postmodernism, che di quel canone è l’esito e la consacrazione.
L’influenza, che è anche un’egemonia, delle teorie degli Octoberists e in particolare di Rosalind Krauss e di Hal Foster (a cui vanno almeno aggiunti Griselda Pollock e Yves-Alain Bois), che Elkins riconduce alla definizione di «North Atlantic Art History», non è certo un fenomeno nuovo e che, come suggerisce l’autore, andrebbe meglio analizzato nelle sue ragioni e conseguenze (in Italia, un riferimento resta la monografia su «October» di Maria Giovanna Mancini). Si tratta di una «master narrative» che Elkins mette in questo libro a reagire anche con la teoria delle «multiple modernities» e con il modo in cui si è scritto e si scrive di esperienze e ricerche d’avanguardia sviluppatesi fuori dal recinto d’elezione dell’Europa occidentale e del Nord America. Opere e artisti che vengono trattati o in termini, francamente desueti, di scoperta o, ed è questo un approccio ancor più insidioso, di periferica conferma: «il Cézanne d’Ungheria», «il Picasso dei Caraibi»… Si tratta, in fondo, di un sommario processo di annessione, di sbrigativa riaffermazione di una costruzione storiografica che solo nel tempo è divenuta dominante: del resto, non va dimenticato che l’attuale egemonia delle teorie promosse dal gruppo di «October» scaturisce da un iniziale, militante gesto di insubordinazione nei confronti di Clement Greenberg e del suo formalismo.
In quello che dichiara essere il suo «ultimo libro di storia dell’arte», Elkins non sembra però interessato a trovare un’alternativa teorica all’attuale conformismo, individuando piuttosto alcune strategie diversive che possano rimettere in discussione i rapporti e gli scambi tra centro e periferia, un tema che nell’euforia della mondializzazione era stato accantonato in tutta fretta allo scadere del secolo scorso e che invece torna, per fortuna, a far riflettere, come tra l’altro dimostra la recente riedizione del saggio Centro e periferia di Enrico Castelnuovo e Carlo Ginzburg, apparso nel 1979 nel primo volume della «Storia dell’Arte italiana» Einaudi.

Scintille di diversità ai «margini»
Nelle dissonanze, negli spostamenti, negli errori che proprio ai margini, più culturali che territoriali, dell’impero generano scintille di diversità e di fraintendimento, nelle imperfezioni che i professori rimproverano agli studenti e che gli editors propongono di emendare, Elkins riconosce infatti l’unico antidoto possibile all’uniformità, alla purezza senza macchia del canone. «Queste piccole discrepanze credo siano attualmente ciò che resta di diverso nelle pratiche mondiale della storia dell’arte».
Una questione di stile? Anche: del resto, che la critica d’arte dei poeti sia uno spazio di rigenerazione lo aveva riconosciuto lo stesso Longhi nelle tanto citate Proposte per una critica d’arte. Il problema che James Elkins qui ci aiuta a mettere a fuoco è però soprattutto quello di una disciplina – la storia dell’arte – che non è morta, come si temeva o si sperava negli anni ottanta del secolo scorso, che ha anzi ampliato i propri oggetti, luoghi e spazi di studio, e che però rischia di perdere senso per eccesso di adesione non alla parzialità di un metodo ma alla pervasività di un paradigma. La speranza, cui Elkins non rinuncia, è che la discussione pubblica crei distorsione e apra vie oggi ancora impossibili da immaginare: a chiudere il libro è così un insolito «set» di idee, trentacinque punti per animare, è questo l’auspicio, «new conversations».