Non so se ringraziare Caterina Ricciardi per la sua complessa, avvolgente Lettura di The Hollow Men di T.S. Eliot (Edizioni di Storia e Letteratura «Biblioteca di Studi Americani», pp. 138, € 12,00); o essere arrabbiato con lei perché – colpa del suo libro! – in questi giorni mi sono letto e riletto una poesia da cui, studiosamente, mi tenevo alla larga da anni. Grande poesia, quella de Gli uomini vuoti? Senza dubbio poesia di grande e forse subdola potenza, che ti entra dentro anche se non vorresti; capace di trasmettere, almeno a me, il malessere affatto fisico della sua «figura senza forma, figura senza colore, / forza paralizzata, gesto senza movimento».
Ma anche «grande poesia»? I tumidi fiumi d’inchiostro che ha fatto scorrere fin dalla sua prima pubblicazione, nel 1925, lo farebbero credere. Io non ne sarei così sicuro; ma il mio parere conta assai poco, viziato com’è da tutti gli anni che ho studiato con Harold Bloom. Il quale, come noto, T.S. Eliot non l’hai mai sopportato (neanche in tempi in cui si taceva del suo antisemitismo), bellamente escludendolo dal «canone occidentale».
Anche se, più delle mille frecciatine disseminate negli scritti di Bloom, credo che a plasmare il mio gusto, o pregiudizio che sia, abbia avuto importanza un lungo articolo dell’ottima narratrice e vigorosa saggista Cynthia Ozick, T.S. Eliot at 101: “The Man Who Suffers and the Mind which Creates”, apparso sul «New Yorker» nell’autunno dell’89. Dove la Ozick, classe ’28, cresciuta a pane e Eliot come tutti gli intellettuali della sua generazione (ma quasi quasi anche della mia), giubilava che il tristo vate, il quale, con le sue «cadenze sepolcrali», aveva dettato lugubre legge alla repubblica delle lettere per mezzo secolo e passa, nel giro di un decennio avesse perso terreno fin quasi a scomparire dai programmi universitari.
«Una cosa è certa», scriveva la Ozick in quell’articolo liberatorio: «noi non viviamo più sotto l’ombra letteraria di T.S. Eliot. ‘Mistah Kurtz – he dead [lui morto]’ – la famosa epigrafe che Eliot trasse da Cuore di tenebra e affisse a Gli uomini vuoti – cade a proposito: il cuore ha lasciato ciò che un tempo dominava». Ma oggi? La sottoscriverebbe ancora, Cynthia Ozick, una affermazione del genere?
Il sospetto è che, alla fine del secolo scorso, T.S. Eliot sia stato sepolto un po’ prematuramente, e ora torni prepotente in circolazione, arzillo revenant (un ruolo per cui aveva senza dubbio il physique), uno di quei morti viventi che dai racconti e le poesie di Edgar Allan Poe erano passati – non sempre via Baudelaire – a infestare i suoi versi. La sua fortuna editoriale, al momento, è allo zenit. Nel giro di pochi anni sono usciti sette volumi di lettere, migliaia di pagine che si spingono appena al ’35; per cui è ragionevole prevederne altri dieci o più per arrivare al ’65, l’anno della morte. Nel 2015 poesie e traduzioni, anche i versi francamente più insignificanti (goliardici e talvolta imbarazzanti), sono stati raccolti e religiosamente postillati, da Christopher Ricks e Jim McCue, in due volumi dove ogni singolo verso si guadagna almeno dieci righi di annotazione (non è un’iperbole). Ed è stata avviata – forse è la novità più significativa – l’edizione critica digitale di tutti gli scritti in prosa, che si stanno rivelando molto più numerosi, e vari, di quanto le smilze raccolte licenziate da Eliot lasciassero sospettare. Che il suo cuore (di tenebra) abbia ripreso a battere, la sua ombra a sovrastarci?
Scandito in rapidi capitoletti, che gettano fasci di luce, chiaroscurando la poesia senza violarne il «mistero», lo studio di Caterina Ricciardi attinge alla critica novecentesca come a quella più recente; e sta al gioco intertestuale secondo le regole di Eliot (la «mente che crea» pensando a Dante, Shakespeare, Conrad), ma quando è il caso guarda anche a «l’uomo che soffre» (e fa soffrire). C’è chi, chiuso il libro della Ricciardi, si rileggerà il Grande Gatsby; chi, più impavido, giudicherà arrivato il momento d’aprire il Ramo d’oro di Frazer (ma mi dicono che la copia di Eliot, ora a Harvard, sia intonsa!). Io sono andato a rivedermi Apocalypse Now, nella versione più lunga: Apocalypse Now Redux (2001). Anche lì, come nella pellicola del ’79, Marlon Brando (il colonello Kurtz) arrivava a sillabare solo qualche verso degli Uomini vuoti. Ma in rete circola uno spezzone in cui legge tutta la poesia: sei minuti pieni, che forse non avrebbero giovato all’equilibrio del film, ma costituiscono, da soli, un’interpretazione assai «forte» del calibratissimo testo eliotiano. Possibile che, laddove Eliot sembra lasciare un filo di speranza ai suoi uomini vuoti, «raccolti sulla riva del tumido fiume // ciechi, a meno che [unless] / gli occhi riappaiano», Francis Coppola neghi loro anche questo? Eppure è proprio così – l’ho risentito tre volte: Marlon Brando legge useless, inutili, vani… Che grande film! anche, proprio nell’intransigenza dei suoi eccessi!