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Eliodoro, il romanziere colto e casto che voleva stupire

Eliodoro, il romanziere colto e casto che voleva stupireLa scena iniziale delle Etiopiche di Eliodoro nell’interpretazione di Abraham Bloemaert: Cariclea si prende cura di Teagene ferito, 1625, Potsdam, Sanssouci

Letteratura classica Nuova edizione Valla per le «Etiopiche» (IV secolo), il più lungo romanzo greco d’amore: grande tecnica narrativa, colpi di scena, rarità lessicali e poetismi

Pubblicato 10 mesi faEdizione del 10 dicembre 2023

Un gruppo di predoni sale all’alba su una delle alture che dominano le foci del Nilo e percorre con lo sguardo il mare sottostante in cerca di navi da saccheggiare. Nessuno però sta navigando e il mare dunque non offre speranza di bottino. I predoni abbassano perciò gli occhi alla spiaggia e scorgono un’imbarcazione ormeggiata con tutto il carico ma priva di equipaggio; la spiaggia è un ammasso raccapricciante di uomini appena massacrati, alcuni con le membra ancora palpitanti.

Il violentissimo scontro, evidentemente terminato da poco, era scoppiato durante un banchetto, di cui i predoni possono osservare i resti: tavole imbandite, crateri rovesciati, vino mescolato a sangue. Decisi a impadronirsi del carico della nave i predoni cominciano a scendere, ma si arrestano perché vedono una fanciulla di bellezza eccezionale con una corona d’alloro sul capo, un arco al braccio sinistro e una faretra che le pende dalle spalle.

Ai suoi piedi un giovane ancora vivo ma sfigurato dalle ferite. La fanciulla è Cariclea (la figlia, bianca, dei sovrani, neri, d’Etiopia), il giovane è Teagene, e quello che ho sintetizzato è il memorabile incipit, di straordinaria potenza visiva, delle Etiopiche di Eliodoro, il più tardo e – con i suoi dieci libri – il più lungo tra i cinque romanzi greci di amore che ci sono pervenuti per intero, ossia, nell’ordine cronologico più verisimile, Il romanzo di Calliroe di Caritone di Afrodisia (scritto nel I secolo d.C.), le Efesiache di Senofonte Efesio, il Leucippe e Clitofonte di Achille Tazio, il Dafni e Cloe di Longo, e, appunto, le Etiopiche di Eliodoro di Emesa (l’odierna Homs, in Siria).

Analogamente agli altri quattro romanzi, le Etiopiche hanno come soggetto la storia di un amore contrastato – quello tra Cariclea e Teagene –, che dopo intricatissime vicissitudini, ambientate tra l’Etiopia, l’Egitto, la Grecia e il Mediterraneo, si conclude con un lieto fine. Nonostante la convenzionalità del soggetto, le Etiopiche sono un’opera di alta letteratura, notevole per tecnica narrativa e per stile. La strategia diegetica di Eliodoro riprende quella dell’Odissea: c’è un narratore esterno, e i fatti non sono raccontati in ordine cronologico, ma il lettore è catapultato in medias res dallo spettacolare incipit sopra evocato, mentre la parte iniziale della storia è riferita in un secondo momento nel discorso diretto di un personaggio, e solo da un certo punto in poi la narrazione da analettica diviene lineare. La cultura letteraria di Eliodoro è vasta, e va da Omero all’esegesi omerica, dalla tragedia alla commedia, da Erodoto e Tucidide a Platone.

Eliodoro ama descrivere ciò che suscita ammirazione e paura e ha un gusto particolarmente sofisticato per il peregrino: memorabili sono, ad esempio, la descrizione della ‘camelopardalis’ (ossia la giraffa) nel libro X, 27, quella dell’ametista in V, 13-14 e quella della ‘pantarbe’ (una gemma magica) in VIII, 11. Ama inoltre i colpi di scena e i grandi episodi corali (agoni ginnici, assedi, cerimonie religiose). Anche lo stile e la lingua sono baroccheggianti e mirano a stupire: la prosa di Eliodoro, ricca di poetismi, è pervasa infatti da rarità lessicali, costrutti grammaticali e sintattici inusitati, figure retoriche e foniche.

Il testo critico di riferimento di quest’opera così singolare è l’edizione pubblicata in tre volumi tra il 1935 e il 1943 dagli inglesi Robert M. Rattenbury e Thomas W. Lumb a Parigi nella «Collection Budé» (con traduzione francese di Jean Maillon). Nel 1938 uscì a Roma, per i tipi del Regio Poligrafico, un’edizione critica di Eliodoro a cura di Aristide Colonna.

Il testo greco stabilito da Colonna – poi ripreso con emendamenti nel 1987 in un’edizione UTET con traduzione italiana di Fiorenza Bevilacqua – risulta assai meno affidabile di quello di Rattenbury e Lumb, ma a Colonna va riconosciuto un merito fondamentale: in un articolo del 1950 dimostrò infatti in modo persuasivo, sviluppando un’intuizione avuta nove anni prima dall’olandese van der Valk, che le Etiopiche non furono scritte nel III secolo d.C., come si pensava comunemente, ma dopo il 350, perché l’assedio della città egizia di Siene (Assuan), descritto nel IX libro delle Etiopiche, mostra affinità troppo strette per essere fortuite con un evento storico, l’assedio di Nisibi condotto con strategia peculiare, appunto nel 350, dal sovrano sassanide Sapore II. L’assedio di Nisibi fu descritto diffusamente pochi anni dopo i fatti da Giuliano l’Apostata in due panegirici in onore di Costanzo II.

L’ipotesi che Giuliano in due orazioni ufficiali abbia narrato un evento militare appena avvenuto traendo i particolari più significativi da un’opera di fiction (le Etiopiche) scritta prima dell’evento stesso, sarebbe di per sé assurda; ma è resa del tutto impossibile dal fatto che la descrizione di Giuliano trova conferma nei versi di un testimone oculare, lo scrittore siriaco Efrem, originario proprio di Nisibi. Ma se Eliodoro ha scritto le Etiopiche nella seconda metà del IV secolo, allora acquisisce una qualche plausibilità la notizia fornita dallo storico della chiesa Socrate (V secolo), secondo cui egli avrebbe composto il romanzo in gioventù e poi sarebbe diventato vescovo di Tricca sul finire del IV secolo, introducendo il celibato ecclesiastico in Tessaglia (si noti che la castità prematrimoniale dei protagonisti Cariclea e Teagene è uno dei motivi centrali delle Etiopiche).

Indurrà certamente una nuova schiera di lettori ad accostarsi a questo autore così affascinante e al suo romanzo la recente pubblicazione del primo volume di una nuova edizione dell’opera, a cura di Silvia Montiglio: Eliodoro, Etiopiche Libri I-IV, Fondazione Lorenzo Valla/Mondadori (pp. CLXXXIV-413, € 50,00). Questo nuovo volume «Valla», affidato a una studiosa della narrativa antica molto nota ed esperta, consta di un amplissimo segmento introduttivo, dell’edizione del testo greco accompagnato da una traduzione italiana, e di note di commento.

La parte migliore del volume è senz’altro il segmento introduttivo, di cui segnalo in particolare le pagine sulla fortuna letteraria e figurativa del romanzo eliodoreo, dall’epoca bizantina al Novecento (pp. CXXIII-CLVII), rispetto alle quali ho un’unica integrazione da proporre. Trattando della fortuna delle Etiopiche nel ventunesimo secolo la Montiglio cita solo (p. CLVI) il racconto Silence di Alice Munro (2004). Aggiungerei No Country for Old Men di Cormac McCarthy (2005), che a mio parere ha tratto ispirazione dall’incipit delle Etiopiche per la scena in cui Moss, mentre è a caccia di antilopi e le cerca con un binocolo dall’alto di un crinale, vede da lontano la scena di uno spaventoso massacro appena compiutosi, con morti, sangue e corpi ancora palpitanti (la scena è celeberrima anche grazie alla versione cinematografica del romanzo di McCarthy realizzata dai fratelli Coen).

La traduzione della Montiglio certamente non sfigura di fronte a quella della Bevilacqua, qua e là viziata da sviste gravi (ad esempio nell’interpretazione di II, 8, 5). Il commento rivela un’ottima conoscenza della bibliografia, ma avrebbe potuto essere più dettagliato. Ad esempio, nelle note all’incipit si desidererebbe qualche informazione in più sul topos letterario della battaglia a banchetto, e stupisce un po’ che non se ne citi il paradigma mitico, ossia la battaglia dei Lapiti e dei Centauri alle nozze di Piritoo, descritta da Ovidio in un passo famoso (Metamorfosi XII, 210-535) che presenta grandi affinità con l’incipit eliodoreo. Le note sulla lingua, la grammatica e la sintassi, inoltre, sono troppo poche e troppo scarne.

La parte meno riuscita del volume mi pare essere però l’edizione critica: la Montiglio non ha compiuto ricerche autonome sulla tradizione manoscritta, e sia per il testo sia per l’apparato dipende pressoché in toto dall’edizione di Rattenbury e Lumb, solo sporadicamente migliorata alla luce della bibliografia più recente. Mancano proposte testuali originali, e non di rado il testo dell’edizione «Budé» viene riprodotto anche quando è filologicamente inaccettabile (ad es., in IV, 7, 8, alla riga 42, viene accolta l’integrazione, impossibile stilisticamente a causa dello iato, che Eliodoro evita, dè egò «héko»; si dovrà leggere, se mai, dè héko).
In sintesi: quello della Montiglio è un lavoro rispettabile, ma non ha l’originalità per imporsi come nuova edizione di riferimento. È auspicabile che nel secondo tomo dell’opera l’editrice apporti qualche correttivo.

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