«Se durante l’Olocausto il presidente degli Stati Uniti e i suoi consiglieri avessero mostrato la sensibilità e l’attenzione di cui danno prova adesso i loro successori, se fosse stata creata a quei tempi una commissione presidenziale, quante vittime ebree e non ebree sarebbero state salvate? Gli ebrei sono stati dimenticati mentre ancora erano vivi: adesso sono morti. Conserviamoli nel nostro ricordo, accogliamo la loro memoria nella nostra».
Era il gennaio del 1979 quando Elie Wiesel pronunciò alla Casa Bianca il discorso inaugurale della Commissione voluta dall’allora presidente Jimmy Carter che avrebbe portato, molti anni più tardi, alla nascita del Museo dell’Olocausto di Washington.

Una volta presa la sua decisione, Wiesel aveva adottato un tono «scomodo» che non faceva sconti a nessuno. Per lui la memoria dello sterminio ebraico non poteva essere confusa con il semplice ricordo: interrogava il passato come il presente in modo altrettanto inesorabile. Ma prima, come gli era già capitato e gli sarebbe successo ancora, aveva indugiato a lungo. Uno stato d’animo ricorrente, spiegherà nelle sue memorie (… e il mare non si riempie mai, Bompiani), lo coglieva di fronte all’ufficialità e alle proposte di incarichi prestigiosi: «Quando mi capita qualcosa di insolito, mi rivedo a Sighet. Quanto è lontana, la piccola città dove un ragazzetto ebreo pregava Dio di insegnarli a pregare meglio, a studiare meglio. Cosa gli è venuto in mente di spingersi in questo luogo riservato agli eletti?».

Lettore della Cabbalà

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Questo perché malgrado sia stato uno dei più tenaci e attivi testimoni dell’Olocausto, uno dei primi a raccontare al mondo l’inferno dei lager e un intellettuale apprezzato e riconosciuto a livello internazionale che ha lasciato dietro di sé circa una sessantina di opere tra romanzi, saggi e testi per il teatro, Eliezer (Elie) Wiesel, scomparso sabato nella sua casa di New York, è rimasto per molti versi per tutta la vita quell’adolescente ebreo sopravvissuto alla Shoah che gli aveva strappato gli affetti più cari e indicato tutto l’orrore che può celarsi nell’animo umano. L’eterno fondo malinconico del suo sguardo e i tanti punti interrogativi che riempivano le sue pagine, come per segnalare nella scrittura lo stupore di essere ancora vivo, mostravano insieme alla rabbia che diceva di conservare ancora intatta dentro di sé, che per lui essere un testimone più che una scelta era una condizione esistenziale.

Nato nel villaggio di Sighet sui Carpazi, in una zona al tempo controllata dagli ungheresi e poi tornata a far parte della Romania, in un mondo ebraico che non sarebbe sopravvissuto alla Seconda guerra mondiale, Wiesel era cresciuto in una famiglia di piccoli commercianti in un ambiente che era ancora quello dello shtetl, dove la lingua comune era l’yiddish e dove l’influsso dello chassidismo promosse la diffusione della Cabbalà, mentre il giovane studiava con il padre l’ebraico e la Torah. Nel maggio del 1944, dopo aver subito le vessazioni del regime dell’ammiraglio Horthy e l’obbligo di risiedere in un ghetto, i Wiesel, oltre a Elie all’epoca appena quindicenne, la madre Sarah e il padre Shlomo, le tre sorelle, Hilda, Beatrice e Tzipora, furono deportati ad Auschwitz Birkenau.

Nel lager di Buchenwald

All’arrivo al campo, sua madre e Tzipora furono avviate subito alle camere a gas, Elie le vide per l’ultima volta sul binario, appena sceso dal treno. Se le altre due sorelle sopravvissero, ma lui lo avrebbe saputo solo a guerra finita, ad attendere padre e figlio sarebbe stato dapprima il campo di lavoro di Buna, un sotto-lager di Auschwitz e poi il lager di Buchenwald dove Elie avrebbe visto il genitore morire dopo essere stato picchiato. Solo qualche settimana più tardi sarebbero arrivati gli americani.

Gli undici mesi passati nell’universo concentrazionario e la tragedia di cui era stato protagonista, Wiesel li avrebbe raccontati in La notte (Giuntina) un romanzo scritto in prima persona e pubblicato nel 1958 dapprima in Francia, anche grazie all’interessamento dello scrittore François Mauriac, e poi negli Stati Uniti che si basava su un brogliaccio di ben 862 pagine redatte in yiddish. Insieme alle opere dell’amico Primo Levi, e molto prima di quelle di Imre Kertesz, La notte sarebbe diventato l’atto di accusa definitivo verso il sistema di morte del Terzo Reich: un libro dove la cronaca minuziosa delle sofferenze subite si univa ai grandi interrogativi che avrebbero accompagnato anche in seguito l’itinerario di Wiesel, la difficoltà ma la ferma volontà di misurarsi con Dio e con gli uomini dopo Auschwitz.

La notte segnerà così sia il debutto della sua attività narrativa che del suo impegno non solo come testimone del genocidio ebraico, ma anche contro ogni forma di odio razziale. «Combattere l’ingiustizia e l’infelicità anche per un solo istante, per una sola vittima, vuol dire inventare una nuova ragione di speranza», avrebbe scritto oltre trent’anni dopo la pubblicazione di quel libro.

Trasferitosi da Parigi a New York alla fine degli anni Cinquanta, Wiesel sarà uno dei protagonisti del rinnovato interesse internazionale per la storia e la memoria dell’Olocausto. Arrivato oltre Atlantico mentre era ancora in corso la battaglia per i diritti civili degli afroamericani, lo scrittore farà però sentire d’ora in avanti la sua voce anche contro l’apartheid sudafricano e le dittature dell’America Latina, contro l’occultamento del genocidio armeno, contro i massacri in Cambogia, Rwanda e Darfour; o per fermare le stragi a Sarajevo come in tutta la ex Jugoslavia. A guidarlo, un’affermazione semplice: «Dobbiamo sempre prendere posizione. La neutralità aiuta l’oppressore, mai la vittima». Quando nel 1986 gli sarà assegnato per questa sua costante attività il Nobel per la pace, nella motivazione sarà così definito: «Sopravvissuto all’abisso dei campi della morte, è divenuto un messaggero di tutta l’umanità. Portatore non già di un messaggio di odio, ma di fraternità».

Schierato «totalmente con Israele», come avrebbe dichiarato pubblicamente, che per lui incarnava ancora l’argine al mondo dei pogrom in cui era cresciuto e alla possibilità che un nuovo Olocausto potesse aver luogo, aveva tuttavia rifiutato di candidarsi alla presidenza del paese quando gli fu proposto nel 2006.

Avversario irriducibile del negazionismo, Wiesel non si accontentava però di denunciare come «l’antisemitismo è resuscitato, mascherato o a viso aperto» e come in Europa «la destra più reazionaria diviene politicamente rispettabile», ma aveva fatto della difesa di migranti e profughi una delle sue ultime battaglie. «In certi paesi – scriveva solo pochi anni fa -, i rifugiati vengono definiti “illegali”. È un termine offensivo. Un essere umano non è mai illegale». Di recente, a preoccuparlo era stata inoltre la deriva xenofoba e antisemita di alcuni paesi dell’Europa centro-orientale, come l’Ungheria di Orbán.

Contro il negazionismo

Fedele alle sue battaglie di civiltà, combattute in nome della memoria, Elie Wiesel è rimasto però fino all’ultimo fedele anche a quel «ragazzetto ebreo» cui la Shoah aveva strappato ogni affetto e consegnato un cumulo di inquietanti interrogativi. Come ha scritto nelle ultime righe di La notte, ricordando il risveglio in ospedale dopo la liberazione di Buchenwald, «un giorno riuscii ad alzarmi, dopo aver raccolto tutte le mie forze. Volevo vedermi nello specchio che era appeso al muro di fronte: non mi ero più visto dal ghetto. Dal fondo dello specchio un cadavere mi contemplava. Il suo sguardo nei miei occhi non mi lascia più».