Doveva essere una situazione win win per Matteo Renzi. Avrebbe dovuto vincere portando a casa la nuova legge elettorale finto tedesca. Ma avrebbe dovuto vincere anche nel caso contrario, quello che si è verificato: accordo a quattro – con Grillo, Lega e Berlusconi – saltato e legge sepolta. Doveva vincere comunque e invece ha perso. Perché adesso si torna sì alle due leggi elettorali rimaneggiate dalla Corte costituzionale, un pezzo di Italicum per la camera e un pezzo di Porcellum per il senato. Un sistema zoppo che preoccupa il capo dello stato ma non dispiace al leader Pd, perché è un proporzionale con una soglia di sbarramento miraggio che consente ugualmente la campagna per il voto utile e, almeno al senato, tiene alto lo sbarramento. Ma l’obiettivo di Renzi era chiaramente il voto anticipato, prospettiva che adesso si allontana e sfuma. Renzi ha perso volendo troppo. Non solo il via libera alla riforma, ma l’approvazione incondizionata della sua strategia personalistica. Ricorda qualcosa? Il 4 dicembre.

Ora la legge elettorale finto tedesca è tornata in prima commissione alla camera, dove però è già annegata tra provvedimenti più urgenti. Forza Italia, l’unico partito che aveva sicuramente da guadagnare dall’accordo, insiste e spera di recuperarla. Con pochissime chance. I cinque stelle vedono nel tramonto dell’accordo con il Pd la via d’uscita da una lacerante discussione interna e sono i più decisi, con Renzi, a dire che non c’è futuro per quell’accordo. C’è nervosismo e non solo nel movimento grillino, se è vero che ieri tre ministri di peso Pd si sono dati sulla voce durante la riunione di governo a palazzo Chigi. Renzi ha definito quello che è successo giovedì alla camera «un fallimento clamoroso», pensando innanzitutto all’incapacità dei suoi negoziatori, capogruppo e relatore.

La nuova linea del Nazareno è che le elezioni si terranno a scadenza naturale, nel 2018. Posizione che non esclude qualche residua speranza nell’incidente parlamentare che faccia cadere anticipatamente il governo. La tensione provocata dall’avventura sul sistema elettorale finto tedesco, del resto, non ha fatto bene alla maggioranza. Se il Pd si è ulteriormente diviso – dal suo gruppo provenivano i franchi tiratori sull’emendamento che ha provocato il patatrac – anche la rottura con Alfano appare definitiva. La minaccia dei parlamentari altoatesini di sfilarsi dall’appoggio al governo, nel caso qualcuno pensasse di salvare la legge elettorale così com’è ora, con l’emendamento che equipara il Trentino alle altre regioni italiane, è indicativa del momento. Il Pd non può rompere con la Svp, pena la rinuncia a otto seggi sicuri. Svp controlla circa 12 voti nel parlamento attuale, la metà nel turbolento senato.

La discussione si sposta allora su come andare a votare con le due mezze leggi eredità delle incostituzionali Italicum e Porcellum. Per i 5 Stelle e – a fasi alterne – anche per Renzi non c’è bisogno di grandi modifiche. Per il Quirinale, è noto, si tratta al contrario di due sistemi inconciliabili. La discussione è legittima perché la lettura delle sentenze della Corte costituzionale non è univoca. Se l’ultima sentenza, quella sull’Italicum, ha detto che la legge è pronta a essere usata, l’ha detto solo con riferimento alla camera, non esorcizzando il problema dell’altro ramo del parlamento. Dove il mezzo Porcellum, secondo la stessa Corte nella sentenza del 2014, è quasi immediatamente applicabile perché servirebbero solo interventi a livello di leggi secondarie, cioè decreti ministeriali. Ma quando l’ha detto l’Italicum non c’era e i problemi nascono appunto dal rapporto tra i due sistemi. Al senato è prevista una preferenza che non c’è alla camera e circoscrizioni grandi un’intera regione. Non ci sono le norme per la rappresentanza di genere. C’è una soglia di sbarramento altissima (8% per i partiti non coalizzati) e non c’è il premio di maggioranza – per quanto irraggiungibile – che c’è alla camera. Dove, invece, sopravvivono i capilista bloccati e il buffo criterio del sorteggio per assegnare il seggio ai pluricandidati.

Servirebbe dunque una legge, con tutte le difficoltà che questo parlamento ha evidenziato. Il presidente della Repubblica ha chiarito che un decreto (che non potrebbe in ogni caso affrontare tutti i problemi) è una soluzione di emergenza che si può giustificare solo a ridosso della scadenza della legislatura. Neanche troppo a ridosso, però, perché il decreto va convertito e non può essere affidato alla lotteria del successivo parlamento.
Intanto ieri il governo ha deciso di chiedere la fiducia sul disegno di legge di riforma del codice penale. La fiducia che Renzi aveva bloccato un mese fa perché non voleva servire ai 5 Stelle la propaganda sulle intercettazioni in campagna elettorale. Segno che Gentiloni si è rafforzato o che le elezioni si sono allontanate. Forse di entrambe le cose.