Renzi, Renzi… Abili come lui nel rovesciare le frittate nella politica italiana forse non ce ne sono stati mai. Metti nel bicchiere un goccio di liquido e lui riuscirà a spacciarlo per stracolmo. Quando, dopo la disfatta, affronta per la prima volta i media, al termine di un incontro al vertice con lo chef Massimo Bottura, ha già pronta la sua arringa. Non nasconde affatto la valenza nazionale del voto, come avevano provato a fare in mattinata i suoi più goffi ufficiali: «C’è un elemento nazionale, una vittoria netta e indiscutibile dell’M5S contro di noi». Para in anticipo le accuse di preparare il sabotaggio: «Il governo aiuterà tutti a cercare di fare bene». Ma il pezzo forte è un altro: «Non credo che sia stato un voto di protesta ma di cambiamento, ha vinto chi ha saputo interpretare meglio il bisogno di cambiamento». La medesima analisi fatta dal rivale Beppe.

Il punto è che se il Pd quel bisogno di cambiamento non ha saputo intercettarlo non è perché alla sua guida c’è appunto Matteo Renzi, ma perché il medesimo, come aveva affermato domenica, nelle ore del disastro, non è stato «Renzi abbastanza». A dare voce al pensiero del capo è il fedelissimo Andrea Marcucci: «Il Pd perde dove non fa il Pd, dove non ha il coraggio di cambiare». Fingendo di assumersi le proprie responsabilità, Renzi e il suo stato maggiore le addossano così al partito, alla sua resistenza all’innovazione, alla rottamazione fermatasi prima di fare del tutto piazza pulita.

A modo suo, Renzi lo aveva detto già nella notte, al solito con formula obliqua: «Cosa dovevo fare, impedire a Fassino di ricandidarsi?». L’imprevista catastrofe di Torino, insomma, dipende dal fatto che in campo c’era un nome del passato. Fassino, che è volpe troppo vecchia per non sapere dove il ragazzo di Rignano sarebbe andato a parare, lo aveva peraltro anticipato spiegando a caldo che la sconfitta era dovuta alla politica non all’amministrazione della città. Un confronto tra gentiluomini, come si vede, ma il torinese, almeno, dice la verità, mentre il toscano ciurla nel manico. Il voto dei ballottaggi è stato un plebiscito a pollice verso su Renzi e sul Pd molto più che non sui singoli candidati.
L’alto esempio di “Matteo primo” fa naturalmente scuola. Ed ecco infatti “Matteo secondo”, il commissario Orfini, assicurare che «i romani in periferia ci criticavano per aver eletto Marino, non per averlo dimesso». Il Nazareno, in contemporanea, faceva sapere che le dimissioni del commissario alla Direzione di venerdì prossimo sono escluse. Una disfatta nella Capitale? E che sarà mai?

Giochi di prestigio a parte, come pensa di affrontare la situazione l’assediato di palazzo Chigi? Scommettendo sul referendum, cassando definitivamente il miraggio di anticipare le elezioni al 2017, cercando di fare del Pd una specie di Movimento 6 Stelle in tempi record. Presto, anzi prima, già a partire dalla Direzione di venerdì. Volti nuovi, giovani, freschi. L’uomo è fatto così: capisce e riconosce solo l’immagine. Quindi si passerà alla campagna referendaria. Non sarà facile ma Renzi conta di farcela proprio impugnando gli argomenti dell’M5S e la radicata ostilità del Paese verso chi dovrebbe rappresentarlo. Se il referendum, che potrebbe essere spostato di qualche settimana, andrà bene, il governo si blinderà fino al 2018, sperando che i barbari di Beppe esauriscono col tempo la spinta propulsiva. Se andrà male, sarà l’apocalisse.

Per vincere una prova che è diventata dopo la mazzata delle comunali molto più difficile, Renzi ha bisogno della pace in casa. Lancerà qualche frecciata contro la minoranza interna, ma probabilmente nulla di realmente contundente. Tutto rinviato al congresso, che comunque si svolgerà dopo il referendum. A quel punto il capo o sarà vincente in partenza o proprio non sarà. Sul nodo dell’Italicum, Renzi lascia aperto uno spiraglio: «Al momento non cambia». La verità è che lui quella legge elettorale non la ritoccherà mai di persona. Non è però escluso che ora, dopo aver toccato con mano di quanto avvantaggi Grillo, speri in una bocciatura da parte della Consulta.

Che Renzi si assolva e cerchi la pace sino a dopo il referendum è nell’ordine delle cose. Molto più stridente la fiacchezza della minoranza. Sembrerebbe naturale mettere in campo la richiesta di dividere la carica di segretario da quella di premier, modificando lo Statuto. Invece niente. Gli esponenti della minoranza parlano tutti ma dicono pochissimo. Bersani non va oltre l’esternazione della sua «grande amarezza». Il solo punto decisivo, quello della segreteria, non lo nomina nessuno. Salvo sorprese in Direzione, se ne parlerà solo al congresso. Proprio come vuole Renzi.