Ci hanno pensato Francia, Spagna e Germania a risollevare le quotazioni di Juan Guaidó, dopo lo smacco ricevuto giovedì in sede di Organizzazione degli Stati americani, dove la mozione per riconoscerlo come presidente legittimo del Venezuela non aveva ottenuto la maggioranza tra i membri.

In suo soccorso, però, è giunto l’ultimatum a Maduro lanciato ieri da Emmanuel Macron, Pedro Sánchez e Angela Merkel: se, hanno dichiarato, entro otto giorni non verranno convocate elezioni «eque, libere, trasparenti e democratiche», i loro paesi riconosceranno Guaidò come presidente ad interim del Venezuela.

«Il popolo venezuelano deve poter decidere liberamente il suo futuro», ha dichiarato Macron. «Non vogliamo instaurare o rimuovere governi, vogliamo democrazia ed elezioni libere in Venezuela», ha rilanciato Sánchez. Guaidó incassa e ringrazia, esprimendo in una serie di tweet la propria gratitudine ai tre governi per «l’impegno nei confronti del popolo venezuelano nella nostra lotta per una nazione libera e democratica».

Ma è tutta l’Unione europea che si starebbe muovendo in questa direzione, lavorando a una dichiarazione comune attorno alla richiesta della convocazione rapida di un nuovo processo elettorale. Come ha dichiarato l’Alta rappresentante Ue per gli affari esteri Federica Mogherini, «in mancanza di un annuncio sull’organizzazione di nuove elezioni con le necessarie garanzie nei prossimi giorni, l’Ue intraprenderà ulteriori azioni, anche sulla questione del riconoscimento della leadership del paese».

Totalmente ignorata la proposta lanciata delle cancellerie del Messico e dell’Uruguay per un «nuovo negoziato includente e credibile», subito accolta dal presidente Maduro ma sdegnosamente respinta dall’autoproclamatosi presidente ad interim, il quale ha fatto sapere di non avere alcuna intenzione di partecipare a «dialoghi inutili e dilatori».

E mentre i leader europei mostrano di avere così a cuore il rispetto della democrazia in casa altrui, preoccupandosi che il popolo venezuelano possa decidere del suo futuro, questo popolo – che sul suo futuro si era già espresso il 20 maggio – continua a scendere in strada in tutto il paese in difesa della sovranità nazionale e della pace. E al suo lato si schierano, oltre ai governi amici, anche intellettuali, movimenti popolari e partiti di sinistra del mondo intero, Europa e Italia comprese.

A Bruxelles, il Gruppo di lavoro della Sinistra europea su America Latina e Caraibi ha lanciato una campagna comune contro il tentativo di golpe in atto e la possibilità di un intervento militare da parte degli Stati uniti e dei loro alleati.

Intanto, alla riunione del Consiglio di sicurezza Onu convocata ieri dagli Usa sulla situazione in Venezuela, l’ambasciatore russo alle Nazioni unite Vassily Nebenzia ha denunciato la «vergognosa azione» di Washington per influenzare il cambiamento di regime nel paese, lamentando «che in questa manovra scorretta gli Stati uniti abbiano coinvolto il Consiglio di sicurezza».

In tal senso, la nomina di Elliott Abrams come inviato per il Venezuela, con il compito di sostenere gli sforzi volti a «ripristinare la democrazia», non promette nulla di buono. Il suo curriculum ha fatto sobbalzare molti anche negli Stati uniti, dove è considerato una delle figure più controverse della politica estera nordamericana. Vicesegretario di Stato per i diritti umani nel governo Reagan, era stato accusato di coprire le atrocità commesse dai regimi dittatoriali in Guatemala, El Salvador e Honduras, oltre a essere uno degli architetti dell’invasione di Panama.

Condannato nel 1991 per aver mentito al Congresso a proposito del suo ruolo nello scandalo Iran-Contra, la vendita illegale di armi all’Iran per aiutare i contras contro il governo sandinista in Nicaragua, era stato subito graziato da Bush senior, ricevendo l’incarico di direttore del National Security Council per gli affari del Vicino Oriente e del Nord Africa.

Posto da Bush Jr nel 2001 a capo dell’ufficio per la democrazia e i diritti umani dello stesso Consiglio di sicurezza nazionale, è stato uno degli artefici della guerra in Iraq del 2003 e ha giocato un ruolo chiave nel colpo di stato del 2002 contro Hugo Chávez. E ora è proprio in Venezuela che viene mandato di nuovo, con il compito di riuscire là dove aveva fallito.

In attesa di quel giorno, il personale diplomatico Usa, prima della scadenza dell’ultimatum di 72 ore dato da Maduro, ha lasciato il paese scortato dagli agenti della sicurezza venezuelana fino all’aeroporto internazionale Simón Bolívar. Conterà di farvi ritorno quanto prima, non appena la democrazia targata Elliott Abrams sarà stata ripristinata.