Non più 13 ma 20 settembre, per il governo è quella la data in cui riportare al voto regioni, comuni e anche tutti gli elettori del referendum costituzionale sul taglio dei parlamentari. Dietro motivazioni sanitarie – il Comitato tecnico scientifico ha consigliato di votare, primo e secondo turno, entro settembre, non dimenticando di coprire l’imboccatura delle urne con uno strato di plexiglass lavabile – la maggioranza ha stretto un patto di reciproca convenienza. Si accontentano i presidenti di regione in cerca di una veloce riconferma – malgrado i due candidati Pd, il pugliese Emiliano e il campano De Luca, non siano popolarissimi al Nazareno hanno dalla loro parte il ministro Boccia – e si regala ai 5 Stelle una pacifica vittoria del Sì nel referendum costituzionale con il doping delle elezioni abbinate. Senza che ci sia il tempo di discutere sul serio la riforma: bisogna votare perché con i primi freddi il virus può tornare.

Ieri in commissione affari costituzionali il governo ha fatto ritirare un emendamento della relatrice grillina al decreto elezioni, la finestra nella quale si potranno tenere le elezioni regionali (in due giorni, ma la data esatta devono stabilirla i governatori) torna ad aprirsi a metà settembre, il giorno prescelto per l’election day è il 20. Pazienza se in questo modo il secondo turno – in Toscana e nei comuni – cadrebbe il 4 ottobre, un pelo fuori dal limite suggerito dai tecnici. Ai quali però non è stato fatto presente che le elezioni prevedono importanti momenti preparatori: la raccolta delle firme per le candidature e la campagna elettorale. Con il voto a fine settembre le firme andranno depositate entro fine agosto, dunque raccolte prima con le pinne, il costume e la mascherina. «Chi e come fermerà i cittadini invitandoli a sottoscrivere i moduli? Ci penseranno forse gli “assistenti civici” del ministro Boccia a facilitare questo esercizio dei diritti politici dei cittadini?» ha attaccato in commissione il deputato radicale di +Europa Magi. La risposta della maggioranza sta in uno sconto: le firme necessarie a presentare le candidature saranno ridotte a un terzo di quelle regolarmente necessarie. Quante precisamente dipende dalle regioni dove si vota (Puglia, Campania, Toscana, Marche, Liguria, Veneto) perché la materia in effetti sarebbe di competenza degli statuti regionali.

Ma più importante è il problema della data. Ieri sera la Conferenza delle regioni ha detto che il 20 è troppo tardi. Loro avrebbero votato a luglio, ma non potendo vorrebbero farlo il 6 o il 13 settembre, anche – dicono – per non spezzare nel vivo l’anno scolastico. La posizione è nota e può persino fare gioco al governo che si trova a dover mediare tra due richieste opposte: l’anticipo che vogliono le regioni e il posticipo «almeno al 27» che chiede l’opposizione. Perché è questo che hanno detto ieri Forza Italia e Fratelli d’Italia (la Lega che ha un governatore e mezzo in ballo, Zaia e Toti, preferisce star zitta). «Erano state le opposizioni a chiedere di andare oltre il 13 settembre, non si capisce perché continuino a protestare», commenta il capogruppo Pd in commissione Stefano Ceccanti. Ma il problema esiste. Il decreto arriva oggi in aula alla camera, senza accordo l’ostruzionismo del centrodestra costringerebbe il governo a mettere la fiducia. Ma Conte aveva annunciato che avrebbe condiviso le decisioni sulle elezioni con le opposizioni. Così come aveva promesso ai comitati per il No al referendum che li avrebbe consultati sulla nuova data. E invece no.