Molto rumore per nulla? A leggere alcuni commenti sulle elezioni catalane sembrerebbe questo il riassunto. I partiti indipendentisti conservano la maggioranza assoluta dei seggi ma non conquistano quella degli elettori. I partiti anticatalani di destra (Ciudadanos/Ciutadans e PP) migliorano leggermente il loro risultato ma con una redistribuzione interna completamente rivoluzionata. In realtà, se si osserva con attenzione risultato e numeri, appare chiaro che dopo il molto rumore sono accadute cose importanti. Cominciamo dai due grandi vincitori, Ciudadanos e il Pdcat.

Le elezioni del 21 dicembre avevano il chiaro obiettivo di ridimensionare la forza dei partiti indipendentisti. Per questo sono state convocate (dal governo centrale e non da quello legittimo catalano) e si sono svolte in una situazione anomala che non ha affatto garantito le «pari opportunità» che erano il ritornello continuo degli anti indipendentisti contro il referendum del 1 ottobre. Numerosi candidati indipendentisti, compresi due possibili Presidenti, hanno dovuto affrontare le elezioni o dal carcere o dall’esilio, in una situazione di vulnus democratico con pochi precedenti in Europa.

Questo obiettivo politico, sostenuto dai grandi mezzi di informazione e dal terrorismo economico delle «fughe» di banche e imprese dalla Catalogna è sonoramente fallito. Il fronte indipendentista mantiene lo stesso appoggio elettorale che aveva guadagnato nel 2015 con la crescita dei consensi a favore di Junts per Catalunya e ERC, a scapito della sinistra radicale indipendentista, la CUP.

All’interno della tenuta del fronte indipendentista ci sono però delle novità. L’elemento più importante è il successo personale di Puigdemont (spesso irriso dai suoi avversari politici e considerato alla stregua di un uomo di paglia). La vittoria del suo partito non può essere liquidata come la conquista dell’egemonia di una destra catalanista indipendentista che si scontra con una destra spagnolista.

Il Pdcat è sicuramente differente dal vecchio partito autonomista catalano, Convergencia, creatura di Pujol e poi artefice, con Mas, della stagione di tagli ai servizi sociali nel periodo peggiore della crisi economica. Il cambio di nome non è solo un’operazione cosmetica per distanziarsi dal vecchio partito coinvolto in gravi scandali di corruzione; a parte il cambio di rotta da un autonomismo, che giocava sul tavolo degli equilibri politici nazionali per ottenere vantaggi soprattutto fiscali, all’indipendentismo, la base sociale del Pdcat sembra molto differente da quella di Convergencia.

Il ruolo di sostegno e di mobilitazione sociale dell’associazionismo (con l’Assemblea nazionale catalana e Omnium, le associazioni guidate dai due Jordi i primi «prigionieri politici» di questa vicenda) ha sostituito il sostegno dell’imprenditoria catalana che, al contrario, ha rapidamente abbandonato la barca indipendentista. I provvedimenti del precedente governo, ad esempio contro gli sfratti, bloccati dal governo di Madrid, ne sono un chiaro esempio.

L’altro grande vincitore di questa tornata elettorale è stato il partito Ciutadans (l’unico ad aver presentato una donna, Inés Arrimada, come candidata Presidente). Ora questo risultato eclatante, costruito in gran parte sulla cannibalizzazione dell’elettorato del PP, potrebbe essere un dato specifico alla Catalogna, una forma di «voto utile» per l’unità di Spagna in una regione che è stata sempre avara di consensi con i popolari.

Potrebbe però anche essere un’indicazione per un eventuale cambio di cavallo per i poteri forti e l’elettorato conservatore: sostituire il ben più presentabile partito giovane ma iperliberista e spagnolista Ciudadanos (il partito dell’Ibex 35, la borsa di Madrid) all’impresentabile PP, uno dei partiti più corrotti d’Europa, da diversi anni coinvolto in scandali di tale rilevanza che potrebbero condurre da un momento all’altro a una frana simile a quella che avvenne nel nostro paese con «mani pulite». I contatti continui e l’appoggio manifesto dell’ex primo ministro Aznar agli «arancioni» appare emblematico.

Un’ultima considerazione va al risultato, deludente ma previsto, della sinistra non indipendentista, Comú-Podem.

Come nelle elezioni del 2015 la radicalizzazione dello scontro tra Catalogna e Spagna ha marginalizzato la posizione di chi rifiuta questo tipo di confronto. I Comunes perdono voti e seggi; si conferma il dato storico che in Catalogna vede le sinistre ottenere risultati elettorali migliori nelle elezioni politiche rispetto a quelle amministrative. Sicuramente la posizione di chi sostiene il diritto all’autodeterminazione del popolo catalano (e quindi al referendum) ma rifiuta l’unilateralità esce indebolita.

Sia in Catalogna che in Spagna è necessario che Podemos e le forze alleate (IU e le diverse confluenze) riprendano protagonismo per evitare che la «finestra di opportunità» del cambiamento politico e istituzionale non si richiuda per un lungo periodo. Il progetto di revisione costituzionale (con il tema della Repubblica) deve uscire dalle nebbie di un’affermazione generica e la questione democratica della liberazione immediata dei prigionieri politici catalani deve essere posta con forza sul tavolo. Nessuna forma di dialogo è possibile se uno dei vincitori delle elezioni, Puigdemont, rischia di essere arrestato non appena rimette piede in Catalogna.