Venerdì, il Covid si è portato via Elena Pulcini. Filosofa della politica, aveva insegnato Filosofia sociale presso l’Ateneo di Firenze fino allo scorso anno. Assai prima che fosse l’ultima moda «per grandi e per piccini», Elena Pulcini ha dedicato la sua ricerca alla vulnerabilità e alla cura, alla «vergogna prometeica» e alla catastrofe ambientale. Aveva i piedi ben piantati nel pensiero critico, quello che, da Francoforte, più si era mescolato con la rivoluzione del Sessantotto; ed era curiosa, si lasciava appassionare dai movimenti sociali, dalle idee controcorrente. Si appassionava, e la passioni erano per lei la «fonte» (die Quelle) della politica.

Certo, il confronto con le teorie «normative» (Rawls, Habermas e nipoti) era stato obbligato anche per lei; per anni sono state il canone, d’altronde. Ma ogni volta sapeva cercare una via di fuga: fosse la trama del «desiderio di dare» o la simpatia originaria, la responsabilità per ciò che è comune (e ciò che sarà) o la capacità propria dell’immaginazione di correggere ed estendere gli affetti, emergeva sempre un pertugio, semmai accidentato, per andare altrove.

Ho avuto la fortuna di condurre con Elena Pulcini la mia ricerca di dottorato, a Firenze, ormai molti anni fa. La complicità fu immediata: rovesciando il motto della statista amica di Hayek, entrambi pensavamo che non esistono gli individui, ma solo le relazioni – enunciato da prendere sul serio in senso ontologico, oltre che etico e politico. Lei, raffinata e colta quanto dolce, seguendo Arendt e Weil, il femminismo dell’etica della cura, ma scavando «dentro e contro» il paradigma antropologico della modernità: L’individuo senza passioni (2001), Il potere di unire (2003), La cura del mondo (2009), scandiscono il sentiero.

Io, ammaliato da Spinoza, da Marx e dai francesi – all’epoca, salvo qualche eccezione, ancora maltrattati dall’accademia –, da lei ho molto imparato. Grazie a Elena, mi sono potuto occupare di «singolarità», ovvero quanto la sovranità e il mercato hanno in odio, fin dalle loro origini; singolare è ciò che in primo luogo sta fuori di sé, che solo nel mezzo della relazione diventa unico e irripetibile. Le nostre vite si sono poi separate, ma proprio con l’inizio della pandemia avevamo ripreso a scriverci con frequenza e con piacere.

Ho recensito per il manifesto il suo ultimo libro, Tra cura e giustizia (Bollati Boringhieri 2020), assai bello e così urgente; progettavamo una lunga intervista per Dinamopress sulle sfide ecologiche e la crisi imposta dal virus. Poi qualche settimana di silenzio. Non sapevo, ho saputo solo venerdì sera. Provo un dolore grande e molta rabbia.

Rabbia, perché intanto il Paese parla da mesi delle piste da sci, delle seconde case, dei viaggi all’estero, delle riaperture. Rabbia, perché ogni giorno in Italia, e da mesi, muoiono in media cinquecento donne e uomini. Rabbia, perché, nel caos delle autonomie regionali e del potere delle corporazioni, non è vero che i più fragili sono stati già vaccinati. Rabbia, perché ci voleva un piano straordinario di finanziamento della Sanità pubblica, invece continuano a fare affari i privati. Rabbia, soprattutto, perché il vaccino dovrebbe essere un bene comune, globale.

È un grande dolore la scomparsa di una filosofa gentile, che aveva il coraggio non scontato di pensare la solidarietà e l’amore per il mondo, quando lo sport praticato dai più è censire senza sosta il «male radicale», la paura che ci tiene assieme perché fonda il Leviatano. Che il dolore si trasformi in lotta, sempre; sono certo che Elena ne sarebbe felice.