Chi visita la Casa Museo Boschi di Stefano di Milano oggi, nell’ultima sala del percorso espositivo troverà un quadro del 1978 di Elena Mezzadra (Pavia 1926-Milano 2022), tutto giocato sugli accordi di bianco e blu e percorso da fili arancio che accendono la struttura cromatica come un incendio latente. Lei ripeteva spesso di essere l’unica donna di cui Antonio Boschi avesse acquistato delle opere. Ne avrebbe presi sei – tutti nelle civiche raccolte milanesi – due alla volta: una tela a suo gusto, l’altra immaginando cosa avrebbe scelto la sua compianta consorte, che testimoniano di una ricerca tenace e solitaria.

PER ELENA MEZZADRA, allieva dello scultore Virginio Ciminaghi ma sostanzialmente autodidatta, la pittura era stata una conquista perseguita con ostinazione, e non senza ostacoli, per anni alternata al lavoro di illustratrice, persino di disegnatrice di mappe geografiche, prima di potersi consacrare totalmente alla pittura e a ritagliarsi uno spazio di autonomia, gravitando intorno alla Galleria delle Ore di Giovanni Fumagalli, attento ai giovani artisti e al lavoro delle donne artiste. Il suo esordio fu tardivo, ma il gallerista convinse l’ingegner Boschi a legare indissolubilmente il nome dell’artista all’appartamento di via Jan, oltre a sollecitare l’attenzione di critici e poeti, da Roberto Sanesi a Luciano Caramel, che nel 1992 introdurrà la sua grande mostra personale al Pac di Milano.

CERTO, non era semplice collocarla nel panorama delle ricerche coeve: né «naturalista» né «astratto-concreta» – stando a un lessico usurato già all’epoca – si era votata alla pura astrazione, conciliando il rigore della geometria con una tessitura vibrante e sfilacciata, data da un paziente lavoro di stratificazione e velatura, approfondito per via di variazioni per tutta la vita. A un certo punto giungerà alla scelta radicale di non titolare e non datare più nessun quadro: a contare, per lei, era il valore pittorico irrelato, che negava la possibilità di un flusso temporale.
L’intreccio di linee dal dettato ritmico dava vita a forme fluttuanti e acuminate, a un incastro di piani colorati, dapprima a intarsio con bordi slabbrati, poi sovrapposti e trasparenti, come se una luce diafana e intensa si irradiasse dal fondo della tela. Era lo stesso principio cercato in calcografia, passando da formati molto grandi a lastre piccole e piccolissime, dove il segno brusco e insistito dava una spinta dinamica all’immagine, cercando con tormentato rovello una lirica leggerezza.

DIFFICILE DIRE da dove venisse quella luce, salvo percepire che quelle ampie tele erano animate da un moto lento e severo, solenne ma non retorico, dando voce a una tensione interiore placata ma non pacificata, a un conflitto che non poteva chiudersi in un disegno esatto e platonicamente compatto, tutto mentale e scevro di emozione.
Ma forse quella luce intensa veniva, come titolava un racconto di Umberto Eco di cui Elena realizzò un’edizione con alcune acqueforti, da un altro empireo.