«Patrice Chéreau ci ha lasciati (il 7 ottobre 2013), ma, si sa, nessun artista muore davvero. Alla Scala si sente ancora la presenza dell’uomo sensibile, attento ed esigente, che in palcoscenico soffiava instancabilmente la vita nelle sue regie. Risuona ancora la sua voce, lampeggia il suo sguardo, si agitano le sue mani, espressive come parole. E sopra ogni cosa rimangono gli spettacoli con cui ha lasciato il suo segno inconfondibile nel teatro musicale del nostro tempo e negli ultimi anni di questo teatro».

Così Stéphane Lissner, sovrintendente e direttore artistico uscente del Teatro alla Scala, sabato 18 maggio, prima che il sipario si alzasse su Elektra di Strauss, cuore delle celebrazioni musicali del 150o anniversario della nascita del compositore. L’allestimento, montato e provato alle ex officine Ansaldo di Milano, ha debuttato al Festival di Aix-en-Provence nel luglio 2013 e coinvolge in coproduzione anche Metropolitan Opera House di New York, Finnish National Opera di Helsinki, Staatsoper Unter den Linden di Berlino
e Gran Teatre del Liceu di Barcellona.

Alla prima mancava dunque il regista, ma era presente quasi al completo la compagnia musicale del debutto, dal direttore Esa-Pekka Salonen alla protagoniste Evelyn Herlitzius (Elektra), Arianne Pieczonka (Chrysothemis) e Waltraud Meier (Klytämnestra). Forse Chéreau, come era solito fare, avrebbe rimesso mano allo spettacolo ideato con i suoi collaboratori storici (lo scenografo Richard Peduzzi, la costumista Caroline De Vivaise, il light designer Dominique Bruguière). Non possiamo saperlo, ma sappiamo che il lavoro coscienzioso di rimontaggio di Vincent Huguet permette di riconoscere l’intenzione del regista, abilissimo nel mettere a partito oggetti e gesti scarnificati per costruire intensissime drammaturgie della psiche. «Lavorava come un dio ma per capire l’uomo», ha dichiarato Peduzzi.

Questa Elektra ripropone, dopo il successo di Da un casa di morti di Janáček (alla Scala nel febbraio del 2010), il connubio tra Chéreau e Salonen, che ha dichiarato di essere «attratto da tutta la musica che si colloca negli snodi storici e stilistici» e che giudica «deliziosamente complicata la partitura, drammaturgicamente semplice, narrativamente lineare ma carica di dettagli infiniti. Il vero problema per il direttore è mantenere l’equilibrio tra queste due tensioni teatrali: il respiro della tragedia che precipita inesorabile ma quasi pigramente, l’energia che invece urge nella scrittura armonica e strumentale. Sarei felice di dirigere come Patrice faceva le regie».

Alla resa dei conti la direzione e la regia si sposano perfettamente e Salonen centra il suo intento di bilanciare le anime dissonanti e le feconde aporie della scrittura di Strauss. La Herlitzius e la Meier hanno fatto tesoro della lezione di Chéreau. La prima, benedetta da una voce potentissima e sempre a fuoco, dà corpo a una Elektra «non folle ma perduta, prigioniera dei suo mondo, sola come una bambina non cresciuta, oppressa dal rapporto amore-odio per la madre e dal rimorso di non aver saputo impedire l’assassinio del padre Agamennone». La seconda, vera e propria regina delle scene, scolpisce una Klytämnestra oltre «i luoghi comuni interpretativi dell’opera e l’uniformità espressiva di questo personaggio raffigurato sempre con caratteri solo aspri e antipatici. Anche lei è vulnerabile perché non riesce a rimuovere la propria colpevolezza, e vorrebbe tornare a dialogare con le figlie. Del resto tutta Elektra rievoca una storia di famiglia, terribile ma vera, in cui nessuno ha ragione o torto soltanto: tutti sono umani». Bravissima anche la più lirica Pieczonka. Si aggiunge al cast René Pape nel ruolo di Orest, con risultati come sempre eccellenti.