La moquette è quella dell’albergo che ospita Pietro Marcello, unico italiano in concorso a Locarno con il suo Bella e perduta, e Sara Fgaier, sua compagna di vita e montatrice del film, ci sediamo in terra. Accanto a noi, in mezzo a mille balocchi, gorgheggia allegramente, labbra grasse al sole di miele, come direbbe De Andrè, la loro bella bambina. Braucci se ne sta comodo in poltrona, l’atmosfera è conviviale perché «il cinema si fa tra amici» dice Pietro. Bella e perduta è un film di scambi osmotici, tra documentario e racconto fiabesco e tra documentazione e poesia audiovisuale. Bella e Perduta è la reggia di Carditello, antica residenza borbonica vittima della predazione camorristica, che per la coppia Marcello-Braucci diventa la metafora di tutte quelle terre vittime di predazioni. Questo film racconta la storia di Tommaso Castrone, il pastore che di quella Reggia si è fatto custode, e del viaggio ultramondano di un giovane bufalo accompagnato da un misterioso Pulcinella.

In questo film trionfa l’analogico. Hai usato pellicole diverse che disegnano scansioni narrative differenziate…
Sono cresciuto col digitale ma la pellicola è tutt’altra cosa, soprattutto per la sua dimensione alchemica, dell’attesa, che ne fa una forma di cinema completamente diverso. Non che il digitale sia più facile, anzi, la pellicola ti assicura una latitudine di posa e un’esposizione che in digitale sono più complesse da rendere, aggiungi che la pellicola si muove, e il cinema è movimento, la grana stessa della pellicola si muove e ti permette di ottenere effetti di una plasticità che al digitale manca. Per ragioni economiche abbiamo utilizzato tutto quello che siamo riusciti a rimediare, emulsioni differenti: Fuji, Kodak e, addirittura, un vecchio stock di pellicole che avevano dieci o quindici anni e che quindi avevano perso sensibilità da chissà quanto, e che hanno richiesto un sensitometrico per poter essere utilizzate. Per le parti documentaristiche è decisamente meno comoda, meno «agile» del digitale, ma noi abbiamo tempi di reazione molto brevi proprio perché veniamo dal documentario, che diversamente dal film di finzione, ti insegna ad essere veloce ed è un’ottima scuola, propedeutica al lavoro su pellicola, registi come Olmi proprio col documentario si sono fatti le ossa. Nel caso della soggettiva del bufalo avevamo una vecchia RT super 16 a manovella, che quindi permette di agire sulla velocità di scorrimento della pellicola e per lo più ho usato una lente vagamente grandangolare, semi anamorfica, che dà al punto di vista del bufalo un aspetto un po’ deformato. È un tipo di deformazione che definirei interiore, ha a che fare con il presagio di morte del bufalo, con la sua memoria, è la qualità di immagine che poi ritrovi anche nei suoi flash-back. Con Sara abbiamo discusso a lungo proprio sulla forma che avrebbero avuto avere queste soggettive e da subito ci è sembrato fondamentale che dovessero esprimere una visione altra, diversa.
In conferenza stampa avete parlato di una modalità di lavoro piuttosto atipica in cui montaggio e sceneggiatura avvengono simultaneamente…
Marcello: È al montaggio che si determina la scrittura ultima del film, per me gli sceneggiatori sempre lì dovrebbero stare. Maurizio ha sviluppato il lavoro di scrittura in progress, partendo da un semplicissimo canovaccio che si è via via modificato nel tempo proprio lavorandoci insieme agli attori. Vedo la sceneggiatura come una scrittura che da sola resta incompleta, in grado di produrre il testo definitivo solo attraverso il lavoro di trasposizione filmica. Penso a un film come Stalker, che se semplicemente letto, come solo dato scritturale è ben poca cosa, ma che diventa un grande film proprio grazie alla trasposizione cinematografica.
Braucci: Questo modo di sceneggiare insieme agli attori non professionisti o dialettali è un modo ricorrente di un certo cinema che diventa prima di tutto esperienza reale, qualcosa che riguarda più l’autenticità che non la teatralità, e che è molto forte nel modo che Pietro ha di dirigere gli attori.
L’esperienza della scrittura scenica è gravata da molti luoghi comuni. Molti la intendono in maniera scolastica mentre in fondo è un qualcosa che fai in maniera perfino disperata, ci metti l’anima e tutti i mezzi diventano buoni pur di arrivare al risultato che cerchi. In questo caso i livelli su cui ho provato a lavorare sono stati molti, e certamente il montaggio è stato una delle forme preminenti di questa scrittura. Un dialogo ininterrotto tra la visionarietà di Pietro, io che cercavo di seguire le sue intuizioni e Sara che in sala di montaggio cercava di trovare una forma adeguata, per poi magari tornare al testo scritto, modificarlo e da qui ritornare al montaggio o al set.
Molto poi dipende dal tipo di esperienza cinematografica che stai vivendo in quel momento, dal tipo di regista che ti affianca, alcuni necessitano di una scrittura più tradizionale altri no. Con Pietro si è instaurata questa sorta di processualità in progress continuo e aperta al mondo, tanto che certe soluzioni sono arrivate quasi per caso, suggerite per esempio dai luoghi, come l’albero della morte che abbiamo trovato inaspettatamente e ci ha ispirato. Rispetto alla concezione canonico-scolastica di scrittura tutto questo, per me è un valore aggiunto. Poi una non esclude l’altra puoi mescolare le due tendenze, scrivere una parte a tavolino e arricchirla con altri materiali o viceversa. Si tratta di uno spostamento che va in direzione della poesia, che è una suggestione, un momento profondo che vivi, a cui poi dai una struttura ferrea, precisa, come ha fatto Sara col montaggio. Molto quindi dipende dal regista, ma anche dal film stesso, che in qualche modo decide la direzione da prendere.
Marcello: Abbiamo potuto lavorare così unicamente perché questo film è totalmente autarchico. La squadra è più che consolidata, con Sergio-pulcinella ci sono cresciuto insieme, con Maurizio pure e questa sorta di energia in qualche modo si avverte nel film finito. L’intera filiera produttiva era controllata da Avventurosa Film, la società di produzione che abbiamo costituito nel 2009, ai tempi di La Bocca Del Lupo. Questo ci ha tenuti al riparo dai compromessi e dalle lungaggini cui inevitabilmente si va incontro quando si tenti di entrare nei circuiti cosiddetti mainstream.
L’elegia provincialista è affiancata da un fondo di impegno civile, di volontà di denuncia
Marcello: Il film è forma, i suoi contenuti dipendono dalle storie e dalle esperienze individuali di chi lo fa e questo tipo di temi rientrano nel percorso umano molto simile che accomuna me e Maurizio. Non è un film di inchiesta o a tesi, è un film che vuole far riflettere, è un film sulle ingiustizie, che dà spazio ai vinti e agli umili. L’idea di base è un po’ quella di L’uomo in Rivolta, di Camus, che dice che prima o poi arriva comunque il momento del riscatto, della ribellione. Poi ho voluto che questo moto di riscatto si radicasse nella provincia perché questo è l’Italia, paesi, campagna, per secoli siamo stati un popolo di contadini, le città sono un’invenzione artificiale. Io poi ho fatto un lavoro d’archivio insieme a Sara, con il Luce, in cui attraverso libro di Carlo Levi Un Volto che ci Somiglia si riflette su come siano cambiati gli italiani. Paradossalmente il naturale processo evolutivo del paese sembra essersi invertito, se pensi alle grandi battaglie fatte in passato in tutta Europa per la conquista di diritti che oggi stiamo sistematicamente smantellando. È la stessa sorte che tocca al nostro piccolo bufalo. Un tempo era un animale utile, ci si facevano «li tratturi», era indispensabile per arare i campi era un amico dell’uomo, che, gli dava un nome, oggi sono solo un numero. Il nostro bufalotto, maschio, viene mandato a morte perché è inutile nella filiera produttiva dell’industria casearia.
Braucci: Dietro a questo film c’è un vasto corpus di ricerche fatto con l’intento di approfondire diversi temi: dal conflitto capitale-natura, che storicamente ha generato i grandi flussi migratori, al rapporto schizofrenico che si ha oggi con gli animali: da un lato ci sono le beauty farm e i dietologi per cani e dall’altro i giganteschi lager della mattanza dell’industria agro-alimentare. Il tema delle vittime, quelle centinaia di migliaia di persone che muoiono nell’inseguire un miraggio di miglioramento delle proprie vite a fronte della prosperità degli imperi finanziari delle banche e delle multinazionali. Persone uguali al nostro bufalotto, un numero all’interno di un ingranaggio al cui interno non conta nulla, ma che ha una sua storia. La prima cosa è ridare le storie agli umili, ai vinti, perché dandogli una storia gli restituisci la dignità, ne rendi meno semplice la cancellazione. Che si tratti di migranti, o degli animali di una filiera in cui non contano niente, che siano le genti del sud che vivono le grandi speculazioni delle corporazioni in un momento storico in cui inizia ad essere più costoso smaltire un prodotto che produrlo. Noi in Campania abbiamo vissuto tutto questo come se fosse una questione nostra personale, mentre invece la questione storica del sud, di tutti i sud, dove grazie alle carenze di democrazia, in Campania come in Africa, le industrie possono fare quello che vogliono in accordo con i politici. Il meccanismo è sempre uguale, quando si deve smaltire, costruire discariche, fare performazioni petrolifere ecc. si conta sul fatto che le comunità con i più bassi tassi di democrazia non si ribellano. Da qui si genera la tesi in cui io credo profondamente secondo cui i grandi temi della storia contemporanea sono nelle mani degli ultimi, degli indigeni che si vedono sottrarre i fiumi in Brasile, delle comunità di Terzigno o della Val di Susa, ecc ecc che sono anche viste come questioni private, quando invece hanno portata storica. A questo aggiungi il problema tutto italiano di una sinistra, che dovrebbe essere la fazione più sensibile a questo tipo di tematiche, che è sempre stata industrialista e sviluppista, per cui qui il tema ecologico resta sempre secondario.
Tommaso, il pastore-guardiano della reggia di Carditello combatte una lotta disperata e solitaria, un qualcosa che attiene all’eroismo individuale…
Braucci: È L’Uomo In Rivolta di Albert Camus, «mi rivolto quindi siamo» è il tema della possibilità, ma anche della responsabilità che il singolo individuo ha di ribellarsi affinché gli altri si ribellino con lui, che poi si traduce nel tema del valore del gesto individuale. Anche perché l’accezione con cui comunemente intendiamo l’individualismo è sempre stata male intesa. Individuo è una ricchezza ed è l’unità di base della collettività, non è l’egoista, i due termini sono stati scambiati, nell’individualismo il valore degli individui è importante per la collettività. Tommaso è stato un’ individuo di grande valore che ha apportato un grande beneficio alla propria collettività a prezzo di un grande sacrificio, che poi è simile a quello del bufalo, li abbiamo costruiti in parallelo.