L’America non è casa (Solferino, pp. 458, euro 20), romanzo d’esordio di Elaine Castillo, giovane scrittrice nata in una famiglia filippina a Milpitas, nella Bay Area di San Francisco, descrive attraverso tre generazioni di donne della stessa famiglia le trasformazioni del mondo dell’immigrazione negli Stati Uniti. La protagonista, Hero, arriva in California a 35 anni, dopo l’esperienza nella New People’s Army, la guerriglia comunista filippina, la cattura e l’internamento in un campo di detenzione militare e la tortura. A Milpitas, dove è insediata da decenni una folta comunità filippina, sarà accolta dalla famiglia di sua zia Paz e farà da babysitter alla nipote Roni, ma troverà anche l’amore tra le braccia di Rosalyn, che lavora come truccatrice. Costruendo, passo dopo passo, mentre tiene a bada a fatica fantasmi e traumi della terra che ha lasciato, la sua nuova vita americana.

A partire dalla storia della protagonista, Hero, il suo romanzo propone un modo nuovo di raccontare il mondo dell’immigrazione – in questo caso filippina – negli Stati Uniti. Emergono l’identità di genere, la cultura queer, l’appartenenza alla working class e il fatto di vivere in un centro minore piuttosto che in una grande città. Un modo di rifiutare gli stereotipi e dare voce ai soggetti piuttosto che ad una presunta «comunità»?
Volevo scrivere della vita degli/delle immigrate queer e, in particolare di chi vive nei i sobborghi dell’immigrazione. Ho letto e amato molta letteratura queer, ma mi sono resa conto che descriveva soprattutto i contesti urbani più che le periferie o le zone rurali dove sono cresciuta. Certo, io stessa ho lasciato la Bay Area per quasi un decennio, per vivere a Londra, ma molte persone come me sono rimaste sempre all’interno della «comunità», nel circuito proletario filippino dei piccoli centri, spesso non spostandosi mai neppure a San Francisco e meno che mai a New York. L’altro elemento che mi stava a cuore era il fatto di poter raccontare di persone le cui vite scorrono all’incrocio di molte cose. Una scelta non certo casuale. Infatti se sei queer e anche un’immigrata senza documenti e una rifugiata politica, proprio come Hero, allora è probabile che tu sia anche vulnerabile da molti punti di vista. Così, la tua sopravvivenza può dipendere dalle persone che hai intorno, da una dimensione «comunitaria» che in questo caso non ha nulla a che fare con la cultura mainstream, bianca e urbana. Hero e Rosalyn, la donna che ama, si muovono così all’interno di questo spazio che è fatto principalmente da filippini, a partire dai loro parenti. E così tutto si gioca dentro uno spazio che pensiamo di conoscere e che invece, anche attraverso questa vicenda, per altro simile a tante storie reali, finisce per trasformarsi in qualcosa di differente dai nostri cliché.

Uno spazio, quello dell’immigrazione filippana segnato però anche dall’omofobia…
Le comunità immigrate, non solo quella in cui sono cresciuta, sono spesso denigrate in quanto omofobe e certo non posso negare di aver subito pregiudizi e pressioni all’interno della mia comunità. Ma ho sperimentato tutto questo anche nell’intera società americana. E non va dimenticato che gran parte dell’omofobia che esiste nelle realtà postcoloniali è inestricabilmente collegata ai secoli di cristianizzazione che si devono al colonialismo europeo e al lavoro missionario neo-coloniale. Perciò è un po’ ipocrita che i presunti paesi liberali d’Occidente demonizzino altre nazioni per qualcosa che esiste ma che si deve in parte almeno anche a loro.

Nell’immaginario globale la Bay Area significa San Francisco, con tutto ciò che questo nome evoca. Difficile invece immaginare la vita a Milpitas dove lei è nata e dove si svolge una parte importante del romanzo. Come appare l’America vista da lì?
Da dove cominciare? Diciamo che prima di compiere diciott’anni credo di essere stata a San Francisco solo un paio di volte. E in spiaggia ci sarò andata non più di cinque volte, e mai per nuotare, ma solo perché gli uomini della mia famiglia andavano a pescare. Alcuni luoghi comuni della vita californiana mi sono del tutto estranei: per quello che ne sapevo io serie tv come Beverly Hills, 90210 e Baywatch avrebbero potuto essere ambientate anche su Marte. Sono cresciuta a Milpitas, che fin da quando ho ricordi è stata una cittadina abitata in larga maggioranza dalle «minoranze»: gli immigrati e i lori figli e nipoti. Oltre il 60% degli abitanti parla una lingua diversa dall’inglese, oltre il 60% è «non-bianco»; quando ero piccola la comunità locale era formata perlopiù da filippini, messicani e vietnamiti. Nella mia classe c’erano forse due bambini bianchi, e non molti di più nell’intera scuola. Quella era la mia America: sono diventata grande senza mai pensare un solo momento che appartenevo ad una minoranza. Quella dimensione di vita, tra filippini e non solo, era l’ordinario, il quotidiano, era centrale nella mia esistenza ma lo era in modo del tutto naturale. Ci si aspetta che guardiamo programmi televisivi su Brooklyn o la California pieni di gente bianca della classe media e che li consideriamo come qualcosa di realistico, quando invece a partire dalle nostre esperienze di vita rappresentano la fantascienza assoluta. Così, se si può credere che una piccola città bianca incarni il cuore del paese – come sembra dirci tanta fiction – perché non aspettarsi che le persone credano che anche un centro pieno di immigrati e dei loro figli possa essere il cuore d’America?

Domanda inevitabile: con la vittoria di Donald Trump e il ritorno prepotente delle retoriche dell’odio nel dibattito pubblico, cosa è cambiato?
Non so se le cose sono cambiate davvero tanto quanto si è portati a pensare a prima vista. Dopo l’elezione di Trump, e dopo il voto sulla Brexit (vivevo a Londra all’epoca di entrambi gli avvenimenti), ricordo che le persone più sorprese sono state gli amici liberali bianchi, il tipo di persone che pensano che l’assenza di pregiudizi personali debba anche significare un’assenza di disuguaglianza istituzionale. Invece, io e i miei amici di colore, o immigrati, siamo usciti devastati da quanto è accaduto, ma non potrei dire del tutto sorpresi. La supremazia bianca, la violenza di Stato, in particolare verso i «non-bianchi», misoginia, omofobia e transfobia, l’attacco diretto alla democrazia- tutte queste cose esistevano ben prima che apparisse Trump, piuttosto rappresentano la linea di sangue fondante dell’America. Già nel 2013 la Corte Suprema aveva annullato una disposizione che proteggeva gli elettori dalle discriminazioni razziali – il segnale di un primo smantellamento del nostro processo democratico che ha avuto poi un ruolo nella stessa elezione di Trump: e tutto ciò avvenne durante l’amministrazione Obama. Certo, i temi agiti nel discorso pubblico si sono fatti ora ancor più brutali ed estesi, ma non si devono commettere errori, quella brutalità era gia lì, solo che magari i maschi eterosessuali e bianchi se ne accorgevano di meno.

Il suo romanzo ha un evidente carattere politico, ma si ha l’impressione che lo sia ancor di più nelle parti che descrivono gli sforzi e le sfide quotidiane dei protagonisti che quando evoca il loro passato nella guerriglia comunista o le fasi storiche più difficili delle Filippine.
Sono molto contenta di questa lettura del mio libro perché è esattamente ciò che mi auguravo di raggiungere. Il più delle volte, quando si fa rientrare un romanzo nella categoria della «politica» è perché contiene dei riferimenti a ciò che potremmo chiamare i grandi eventi storici o di carattere sociale: guerre, rivolte, colonialismo. Tutti temi che attraversano il libro ma che non ne rappresentano il cuore. Questo perché personalmente sono convinta che sia altrettanto importante prestare attenzione alla politica dei sentimenti: a ciò che, in questo caso, serve ad una donna queer priva di documenti di innamorarsi e cercare di costruirsi una vita. Un «contenuto politico» che assomiglia in qualche modo alla frequenza di una radio su cui ci si può sintonizzare per capire cosa muove davvero le persone che abbiamo intorno e quelle di cui scegliamo di raccontare la storia. È per questa via che i personaggi di cui scriviamo incontrano anche i nostri sé privati, quelli più intimi, dove siamo emotivi, istintivi, animali, e si, anche politici.

Lei cita spesso autori come Junot Diaz e Jamaica Kincaid, anch’essi figli di immigrati o arrivati negli Stati Uniti da adulti. In questo senso anche il suo lavoro è parte dello sviluppo all’interno della letteratura americana di un nuovo spazio diasporico che ridefinisce la relazione tra i luoghi di partenza e quelli di approdo?
La letteratura americana è sempre stata letteratura diasporica. Mi spiego: l’America, come il Canada, l’Australia e la Nuova Zelanda, è prima di tutto una società coloniale, quindi il suo patrimonio letterario si fonda sulla dimensione della diaspora che ha alimentato. Dalla narrativa dei primi coloni (e dalla violenza e dai genocidi contro i popoli nativi che descrive, o meglio, cancella) al racconto dello schiavismo imposto agli africani, fino a America is in the heart – cui mi sono in parte ispirata, rimandando al gioco di parole che suscita la pronuncia con l’accento filippino di queste parole, per il titolo del mio libro -, il romanzo auto-biografico pubblicato nel 1946 da Carlos Bulosan e considerato come una delle prime tracce narrative della presenza degli immigrati filippini nel paese, delle lotte che hanno condotto e del razzismo che hanno subito. L’America mi appare fondata su tre principi: una società coloniale, un’economia schiavistica e un impero globale, che si è formato ispirandosi ai primi due principi e applicandoli all’estero, come nelle Filippine. Quindi, per quanto detto fin qui, è semmai curioso che non ci sia più letteratura diasporica – scritta da persone dalla pelle scura – sugli scaffali delle librerie americane e che non si legga con atteggiamento più critico la letteratura americana bianca. Solo così potremo capire ciò che queste pagine ci dicono davvero dell’America.