Alcune associazioni tra opere contemporanee e opere del passato sono diventate luoghi comuni della storiografia artistica: sono paragoni più o meno originali che dimostrano quanto sia stratificata la memoria figurativa. In questo senso, la parabola critica di Domínikos Theotokópoulos (1541-1614) è esemplare. El Greco, pressappoco dimenticato fino alla seconda metà dell’Ottocento, diventa un beniamino delle avanguardie di primo Novecento: «un pittore veneziano, che però è cubista nella costruzione», disse Picasso. Così oggi è difficile, se non impossibile, citare l’artista cretese senza fare i nomi di Cézanne o Kokoschka, senza ricordare quanto le sue distorsioni spaziali influirono su quelle dell’Espressionismo, associando poi queste e quelle a interpretazioni patologiche: megalomania, disadattamento, fino all’astigmatismo e al consumo di droghe.
Superate queste letture, un approfondimento sul Greco non può prescindere della ricapitolazione del suo itinerario umano e artistico da Creta a Toledo, contestualizzando le sue intemperanze in un momento di profonda crisi dell’immagine in cui gli artisti cercano una nuova legittimazione, nuovi ruoli nel più ampio panorama culturale della Controriforma. L’intera vicenda dell’artista si segue fino al 10 febbraio nelle sale del Grand Palais dov’è allestita Greco, a cura di Guillaume Kientz. Una mostra ricca, che procede agevolmente sul filo della cronologia, salvo qualche utile parentesi e qualche scarto che si fa purtroppo fatica a ricomporre negli spazi diminuiti del padiglione parigino in restauro.

Un’icona di «maistro Domenego»
L’incipit è tra gli interni ombrosi e gli esterni assolati di Candia, dove si ribatte il prezzo di un’icona con la Passione di Cristo del «maistro Domenego». L’opera è perduta o dispersa, ma l’aspetto che doveva avere si può idealmente ricostruire guardando ai dipinti in stile bizantino firmati da Theotokópoulos in quel giro d’anni, come il San Luca del museo Benaki di Atene, ora in mostra. La vendita dell’icona con la Passione procura all’artista 70 ducati, una cifra non indifferente. Fa allora i bagagli: è a Venezia all’inizio del 1567, forse da subito, per i buoni uffici del fratello funzionario del governo veneziano di Creta, dentro la bottega di Tiziano. In laguna la lingua pittorica italiana transita in breve dagli occhi ai pennelli; l’altarolo della Galleria Estense di Modena, snodo nella parte iniziale dell’esposizione, è il pezzo-chiave per comprendere l’adesione del Greco alla maniera veneziana.
In quei mesi, che si possono immaginare pieni di fervore, di studio, di scoperte, oltre a Tiziano, altri due artisti giocano un ruolo importante: il primo è Tintoretto, cioè l’autore, per il Greco, delle più belle pitture del mondo, le tele per la Scuola di San Rocco. Da lui il cretese impara quanto il colore e la luce possono caricare di verità drammatica le scene, quanto ci si può spingere nella variazione delle pose e nell’invenzione; il secondo è Jacopo Bassano, da cui coopta le cromie mordenti e smaltate.
Nel 1570 si sposta a Roma lungo un itinerario difficile da definire. Dal miniaturista croato Giulio Clovio ottiene una lettera di raccomandazione ad Alessandro Farnese, e quindi un alloggio nel palazzo del cardinale «per qualche poco tempo». I mesi a casa del committente più ambito della capitale artistica europea non bastarono però a decretarne il successo in città, anzi. Durante quel periodo il sogno per l’antichità e la classicità che lo avevano spinto verso Roma svanirono e l’artista si dimostrò insofferente, persino indisponente; si fece sempre più chiara la sua avversione verso la pittura tosco-romana, un odio poco celato nei confronti di Vasari e quindi di Michelangelo, «un semplice che non sapeva dipingere», disse a Francisco Pacheco, maestro e suocero di Velázquez. E fu probabilmente una provocazione sul Giudizio sistino a colmare il vaso della sopportazione del Farnese, custode morale dell’affresco: con un’arroganza che gli procurò chissà quante strali, il Greco si offrì infatti di ridipingere la parete.
A Roma Domínikos continua a produrre ritratti – come quello di architetto dello SMK di Copenaghen ora esposto, così vicino a Tintoretto, così veneziano da aver fatto pensare a una seconda lunga puntata in laguna – e opere di piccolo formato per la devozione privata: non sa affrescare, e questa sua mancanza lo esclude dai grandi cantieri decorativi di Villa Farnese a Caprarola e dell’oratorio del Gonfalone a Roma di cui dovette seguire i progressi con un senso di frustrazione che esplode più tardi nelle annotazioni, talvolta virulente, alla copia delle Vite di Vasari donatagli da Federico Zuccari nel 1586. Con Zuccari c’è sintonia: entrambi hanno una visione critica del sistema di valori dell’arte italiana montato da Vasari. Il pittore marchigiano diventa perciò un esempio, non di stile – troppo classicamente scultoreo –, ma per l’afflato retorico coinvolgente determinato dalle pose libere dei suoi personaggi, dai tagli compositivi.
I documenti sorprendono il Greco a Toledo nell’estate 1577, impegnato nella realizzazione dell’Espolio per la sacrestia della cattedrale. Dell’opera si conoscono diciassette copie, di cui tre ritenute completamente autografe. Due di esse, da Monaco e Upton House, sono in mostra: dicono qualcosa del successo dell’immagine, della crescita del pittore e della centralità dell’atelier in questo sistema di reiterazione dell’invenzione. Con l’arrivo in Spagna la pratica della pittura di formato ridotto sembra cessare e cede anche, e definitivamente, l’impalcatura prospettica che fino a qui ha sostenuto le composizioni. Nei dipinti degli anni iberici continuano a venire a galla ricordi dell’esperienza italiana. L’Assunzione della Vergine del museo di Chicago, come l’Espolio, è una combinazione di colore veneto, bassanesco, e un insieme di contrappunti ed eleganze imparati a Roma da cui emerge una conoscenza non secondaria degli affreschi della Paolina. È il cuore della mostra, arricchito da tele clamorose come il Ritratto del cardinal Niño de Guevara, quello di Hortensio Paravicino o l’Annunciazione del museo di Budapest in cui l’iconografia dell’Annuncio, sintetizzata allo stremo, è una vorticosa visione colorata.
Un’enigmatica «Adorazione»
Qualcosa sui motivi del trasferimento in Spagna lo suggerisce l’Adorazione del Nome di Gesù, un dipinto enigmatico quanto smagliante, un’evocazione trasognata della vittoria di Lepanto che ha fatto pensare a una commissione reale o a un dono del pittore per Filippo II, un’iniziativa che non contrasterebbe con gli eccessi di superbia del Greco. Al Grand Palais sono esposti sia il quadro dell’Escorial che la versione, altrettanto misteriosa, della National Gallery di Londra. È quindi a Toledo che questo pittore migrante trova casa e mette su famiglia; nell’atelier, dove lavora anche il figlio, i collaboratori replicano le invenzioni del maestro: la pittura genera altra pittura, mentre il disegno e i modellini d’argilla, il cui uso gli deriva da Tintoretto, sono utili allo studio di pose e scorci. Quattro dei suoi rarissimi fogli sono ora al Grand Palais, mentre si può ragionare anche sull’attività, pur marginale, del Greco scultore con la presentazione del Cristo risorto dell’Hospital de Tavera di Toledo.
Le stagioni del cretese si misurano sul ritorno dei motivi iconografici, ripresi a distanza di anni, con una modalità che deriva da Bisanzio e che non era sconosciuta nemmeno nelle botteghe della Roma farnesiana. Del Cristo che caccia i mercanti dal tempio, per esempio, a Parigi sono raccolte quattro versioni: le prime sono dipinte a Venezia sotto il nume di Tintoretto mentre nell’estrema, proveniente da San Ginés de Arlés a Madrid, la pittura è accesa, mossa da scosse elettriche, vibrante nei contrasti delle cromie squillanti. L’opera che chiude la rassegna parigina è L’Apertura del quinto sigillo dell’Apocalisse. Tagliata nella parte superiore, è tanto più esplosiva, carica di un’energia espressiva colta a pieno nel Novecento quando la tela, prima di approdare al MET, era a Parigi, nella collezione del pittore Ignacio Zuloaga. È così, su questa rotta Toledo-Parigi, che le figure infiammate di colore del Greco finiscono tra Les demoiselles d’Avignon.