Secondo lungometraggio del regista boliviano (nato nel 1984) Kiro Russo, già molto premiato col suo esordio Viejo Calavera (2016), El gran movimiento, al di là di quello che sarà il palmarès, è già il vincitore della sezione Orizzonti, di cui almeno tra quelli visti è l’unico a proporre un lavoro di ricerca che sorprende il proprio soggetto con una costante ricerca formale. E questo in una tendenza che predilige invece storie di sceneggiatura, senza troppe sorprese – se si esclude il magnifico Atlantide di Yuri Ancarani già recensito su queste pagine – in cui ogni elemento deve trovare la casella «giusta» specie se poi si tratta di argomenti seri, questioni di geopolitica, la costruzione del martire (Amira di Mohammed Diab), il teorema della corruzione sociale (Miracle di Bogdan Georgi Apetri), l’indagine nel rimosso (Pilgrims di Laurynas Bareisa).
Russo lo sintetizza così: «Una sinfonia della città in altitudine, la malattia di un operaio, l’incubo e la sua redenzione». È dunque il respiro della metropoli, La Paz, «il grande movimento» a cui allude il titolo, colta nelle sue strade affollate, i mercati ma anche gli abissi più profondi che si srotolano lungo traiettorie segrete, e che portano altrove, sui bordi di una natura quasi imprevista, in una dimensione magica e surreale. Elder (Julio Cesar Ticona) è un operaio, con altri ha camminato sette giorni da Huanuni a La Paz in cerca di lavoro e per protestare contro la chiusura delle miniere che li ha messi alla fame. Non trovano nulla però, se non piccoli lavoretti faticosi e sottopagati, mangiano male, bevono, dormono in giro, l’altitudine (3600 metri) mozza il fiato. O forse sono le polveri respirate nelle viscere della terra che hanno divorato i polmoni di Elder. Sta male, ha la febbre, non riesce a portare le pesanti cassette di frutta e verdura al mercato.

UN’ANZIANA signora, Mama Pancha, che somiglia a un’antica figura popolare, lo prende sotto la sua protezione, dice che lui è il suo figlioccio, lo rimprovera per gli abusi di alcol, ma il ragazzo sembra non conoscerla Le donne al mercato ridono di lui che non sa fare nulla, nessuno si occupa degli altri, a parte Mama Pancha, tutti cercano disperatamente di sopravvivere malgrado sé stessi. C’è poi Max, un tipo stravagante,una sorta di eremita che predica i tarocchi e l’apocalisse, e vive in mezzo ai boschi; lo cacciano via perché puzza, le donne gli chiedono di lavarsi perché la purificazione nella terra di Mama Pancha è qualcosa di sacro che tiene lontane le forze maligne.
Aperto e chiuso come un documentario di osservazione su quell’ universo cittadino tra i manifesti sovrapposti sulle mura, le facce, i corpi che ondeggiano nello spazio rimanendo in una prospettiva proletaria – non si vedono mai quartieri ricchi – El gran movimiento accoglie progressivamente una dimensione quasi magica in cui si mescolano superstizioni arcaiche, leggende, figure fantasmatiche che entrano nella realtà mostrata per svelarne una cifra lontana da quella della sua rappresentazione abituale. La scommessa di questo magnifico film è una narrazione che sottrae i propri soggetti all’immagine di miseria e sconfitta per metterli al centro dell’inquadratura con dignità, ricchezza, nel gioco dei generi cinematografici, il musical o il soprannaturale.

NELLE COMPOSIZIONI di abiti coloratissimi delle signore al mercato,quasi un coro della tragedia, nei vicoli stretti,nei bar Russo il cui orizzonte rimane quello dei personaggi fa del confronto col mondo una dichiarazione di cinema. Come mostrare il proletariato? In che modo raccontare i poveri, il loro quotidiano, le loro battaglie dentro al presente? La risposta qui sembra essere reinventandone l’iconografia in un gesto cinematografico che gioca con la grana e le gradazioni di luce, che improvvisa salti di fantasia – due momenti di danza sublimi – e non si fa incantare dalla retorica della violenza – quasi sempre coniugata al sottoproletariato urbano.E grazie a questa sua visione libera riesce a mostrarne la condizione di conflitto e marginalità: ogni figura, a cominciare dal protagonista, non viene mai vittimizzata, la sua verità diviene una nuova possibilità di essere.