SME: Sergej Michajlovich Ejzenštejn; Sua Maestà Ejzenštejn. La sua figura non smette di stare al centro della scena cinematografica. È appena uscito infatti, per i tipi della Marsilio, il primo volume di Metod, l’opera a cui il regista e teorico sovietico avrebbe voluto affidare la sintesi del suo pensiero. Si tratta di un testo di tale complessità che conviene affidarsi alla limpida introduzione della curatrice Alessia Cervini per orientarsi al suo interno. Il metodo volume I (pp. 522, euro 34,00), è anche il coronamento di un’impresa iniziata nel 1981. Quell’anno usciva, curato da Pietro Montani, un altro fondamentale testo di Ejzenštejn, La natura non indifferente, primo titolo delle Opere scelte dell’autore.
Un filo rosso lega i due saggi: in entrambi Ejzenštejn non tenta la strada (più facile) di una teoria «ristretta» del cinema. Al contrario, egli intraprende il percorso (più arduo) di una riflessione che trova la sua identità nei punti di intersezione: tra l’arte intesa in senso più tradizionale e l’immagine concepita in modo più allargato; tra la dimensione antropologica del vedere e del raffigurare e i molteplici usi politici cui le immagini sono soggette.
Non sembra un caso se la maggior parte degli scritti più ampi e ambiziosi di Ejzenštejn, compreso Il metodo, siano rimasti incompiuti. L’incompiutezza che caratterizza tanta parte della sua produzione teorica sembra rispondere ad almeno due istanze. Da un lato Ejzenštejn è un pensatore «ipertestuale»: legge filosofi (Kant, Lessing, Hegel, Engels), antropologi (Lévy-Bruhl), psicoanalisti (Freud), anche quando non può citarli per ragioni di censura. Dall’altro lato sembra quasi che ripeta nel pensiero un gesto registico: ogni volta che la sua riflessione evolve, modificando o cambiando il suo oggetto, Ejzenštejn deve, per così dire, ridefinire l’inquadratura.
Ha ragione perciò Alessia Cervini a intitolare la sua introduzione Con gli occhi di Ejzenštejn. Di qui discende anche un aspetto della fortuna critica del regista: ciascuno si è in un certo senso fabbricato il suo Ejzenštejn. Cervini ricostruisce questa complessa vicenda con la chiarezza e la capacità di sintesi che le consente la profonda conoscenza dell’autore di Ivan il Terribile. Ejzenštejn è stato di volta in volta il creatore di alcuni film di rottura nella storia del cinema. È stato anche, nella fase semiotica della teoria del cinema, il modello di una «teoria generale» del linguaggio cinematografico, che aveva il suo perno nel montaggio, di cui egli è stato uno tra i più originali e raffinati teorici e cultori. Ed è stato infine, aggiungerei paradossalmente, l’emblema di un cinema asservito alle esigenze della propaganda di regime sovietica, sebbene forse solo Aleksandr Nevskij si presti a questa accusa; e comunque bisognerebbe tenere presenti contesto storico e vicenda biografica che portano il regista a girare questo film. Jacques Aumont, Francesco Casetti e il già citato Montani hanno in modi e momenti diversi contrassegnato o segnalato le tappe di questo percorso.
Cervini non si limita a un lavoro di ricostruzione, ma aggiorna questa Wirkungsgeschichte, indicando almeno tre nuove linee di ricerca nella teoria del cinema di Ejzenštejn. La prima riguarda la riscoperta della dimensione antropologica di un Ejzenštejn «messicano» (e non solo), che esplora gli usi primitivi (e probabilmente primordiali) delle immagini. Queste non sono mere copie delle cose, ma strumenti attraverso cui, per così dire, gli esseri umani entrano in un modello di vita, individuale e collettivo, e danno forma alle loro emozioni. Più che di configurazioni statiche, si dovrebbe parlare di ritmi: ecco che qui emerge per il cinema (e prima del cinema) la centralità del montaggio come forma compositiva. È una linea che trova nei lavori, tra gli altri, di Antonio Somaini e Marie Rebecchi un importante luogo di elaborazione.
C’è poi la linea di un Ejzenštejn «americano» (mancato), intuita già da Horst Bredekamp, secondo cui sarebbe possibile attualizzare il lavoro con le immagini, così come lo intende Ejzenštejn, alla luce del paradigma contemporaneo di cultura visuale. In questa prospettiva emerge chiaramente come il cinema non sia un’arte chiusa. È al contrario un’arte aperta per definizione, che vive in quanto dialoga con quella che oggi viene chiamata a volte iconosfera e che, data la crescente egemonia delle immagini (inaugurata dal cinema!), finisce sempre più per coincidere con la cultura tout court. Emergono qui due aspetti di capitale importanza per una riflessione sull’oggi. Il primo è che occorre riannodare il filo che unisce politica e antropologia proprio a partire dagli usi e dai poteri dell’immagine. Il secondo è che risulta ormai chiaro quanto sia insufficiente la stessa definizione del pensiero di Ejzenštejn come una teoria del cinema: siamo di fronte a una compiuta teoria sugli usi dell’immagine e sulla sua naturale vocazione «intermediale» come correlato del linguaggio.
Cervini individua qui un terzo aspetto, forse il più importante e originale, del pensiero di Ejzenštejn. In una teoria dell’immagine, costruita attorno alla teorizzazione del montaggio e a una disamina dei suoi usi e poteri, ne va della possibilità di concepire un «pensiero sensibile», come lo definisce lo stesso regista. Questo è il Grundproblem che sta al centro, anche testualmente, di Metod. Cervini individua in uno dei procedimenti «retorici» prediletti da Ejzenštejn, la pars pro toto, la chiave d’accesso per comprendere tale pensiero sensibile. Si tratta non di un riflettere per mezzo di analisi, ma di condensazioni di senso, le quali precedono e preparano il terreno di metafore e metonimie già organizzate in un qualche linguaggio, perché ristrutturano i nessi del pensiero e riorgazzano i rapporti fra i diversi oggetti dell’esperienza. Di qui discende il tratto fortemente produttivo del pensiero sensibile e la sua intima connessione con la creatività. Dietro una elaborazione di tale complessità teorica dobbiamo vedere, secondo Cervini, il rapporto di Ejzenštejn con il geniale psicologo Lev Vygotskij. In altre parole, egli starebbe tentando di descrivere dal punto di vista dell’immaginazione il movimento di trasformazione del linguaggio egocentrico del bambino in un discorso interiore dotato di autonomia semantica, e perfino di un carattere di primarietà, nel quadro delle facoltà cognitive del soggetto. In fondo, Ejzenštejn sembra aver anticipato – e forse superato a volte – tutte quelle filosofie del cinema, da Bergson a Deleuze, che hanno pensato il cinema come forma di pensiero. Ejzenštejn fa un passo oltre: le immagini, sembra dirci, sono il luogo di costituzione della soggettività.