Diana Azir ha 26 anni e l’aspetto di una ragazzina. Appena apre bocca ti rendi conto che non è l’adolescente che sembra. Piglio deciso, Diana lancia accuse all’occupazione israeliana e non risparmia critiche allo stesso Abu Mazen. Il presidente dell’Anp, qualche ora prima, con una intervista rilasciata al New York Times, ha proposto uno Stato palestinese smilitarizzato pieno però di soldati della Nato, da dispiegare lungo i confini con Israele e la Giordania e a Gerusalemme Est. «Potranno restare a tempo indefinito – ha offerto Abu Mazen – per rassicurare gli israeliani e per proteggere noi». Le sue parole, che destano sconcerto nei Territori occupati, lasciano indifferente Benyamin Netanyahu che insiste per mantenere la Valle del Giordano sotto il controllo militare israeliano. Anche ieri il premier non ha perso l’occasione di lanciare nuove accuse al presidente dell’Anp. Diana Azir mette le cose in chiaro, anche con Abu Mazen. «Siamo qui per lanciare un messaggio – dice rispondendo alle nostre domande -, la Valle del Giordano è un territorio palestinese e rimarrà palestinese, il nostro popolo non accetterà mai che venga ceduto a Israele. I palestinesi chiedono uno Stato vero, non uno Stato finto e territorialmente frantumato per assecondare Israele e gli Stati Uniti».

Diana da venerdì è protagonista assieme ad altre centinaia di palestinesi della “rioccupazione” di Ein Hijleh, un villaggio palestinese nella Valle del Giordano, a pochi km da Gerico, abbandonato dai suoi abitanti durante la guerra del 1967 (evacuato con la forza dall’esercito israeliano, secondo un’altra versione). I palestinesi hanno colto di sorpresa i soldati, che pure presidiano con forze ingenti questa fascia di territorio occupato sempre più militarizzata, colonizzata e soggetta a forti restrizioni nei confronti dei palestinesi che non vi risiedono e persino verso quelli che vi abitano. Le demolizioni di case palestinesi sono all’ordine del giorno. Poi, all’ombra di un bel palmeto, hanno portato nel villaggio viveri, teloni e generatori autonomi di elettricità e si sono messi al lavoro per ripulirlo e renderlo più vivibile. Lo stesso è avvenuto qualche ora dopo più a nord, dove altre dozzine di palestinesi hanno eretto un accampamento di tende ma la polizia lì è intervenuta subito, ponendo fine all’iniziativa. «Ogni tanto gli israeliani ci provano anche qui ma a Ein Hijleh esitano ad intervenire con forza perchè i terreni del villaggio appartengono alla Chiesa ortodossa», ci spiega Mahmud di Maasra, uno dei leader dei comitati popolari palestinesi, forza trainante già lo scorso anno di iniziative di «rioccupazione» di colline cisgiordane minacciate dalla colonizzazione. Assieme a lui a Ein Hijleh sono presenti anche altri palestinesi che guidano la lotta di diversi villaggi contro il Muro israeliano, a cominciare da quelli di Bilin. E non mancano anche gli attivisti internazionali. «Siamo presenti ma questa è una mobilitazione palestinese, fatta per palestinesi, devono essere loro i protagonisti della lotta sulla loro terra. Noi stranieri diamo solo una mano a diffondere le notizie nei rispettivi Paesi», chiarisce Luca Magno, fotoreporter che segue abitualmente le iniziative dei comitati popolari.

Lasciamo Ein Hijleh, evitando di passare per il posto di controllo allestito dall’esercito israeliano a poche decine di metri dal villaggio ritornato alla vita. Radio Voce della Palestina riferisce che il Qatar ha deciso di riservare 20mila permessi di lavoro per cittadini palestinesi, «una diretta risposta a una richiesta fatta dal primo ministro Rami Hamdallah», spiega l’emittente. Accanto a chi si impegna affinchè i palestinesi abbiano una vita libera e un lavoro nella loro terra, c’è chi si accontenta di farli emigrare.