Le grandi narrazioni, con buona pace di Lyotard, non sono finite. L’ultima, sostiene Alain Ehrenberg in La meccanica delle passioni Cervello, comportamento, società (traduzione di Valeria Zini, Einaudi, pp. 342, euro 26,00) è quella neuroscientifica. Camera di risonanza degli ideali capacitari elaborati dalle menti illuministiche di Hume e di Smith, la favola delle neuroscienze porta acqua al mulino dell’individualismo moderno e lo fa – è la tesi dello studioso francese – tratteggiando il profilo di un uomo nuovo: l’uomo neurale. Grazie all’antropologia e al linguaggio dell’azione (agency in inglese), l’epica neuroscientifica si fa paladina del suo eroe: il self making man. E se è preferibile scrivere making anziché made è perché l’uomo nuovo non è l’individuo freudiano determinato dall’inconscio e dall’Edipo, ma l’individuo cognitivo che si fa da sé, in un processo di autoregolazione e apprendimento potenzialmente inesauribile.
Il fatto neuronale della plasticità cerebrale combinato all’ideale sociale del potenziale nascosto fonda, infatti, la credenza in una capacità continua di adattamento e metamorfosi che non conosce ostacoli o che, se li conosce, li supera con facilità e una buona dose di riconoscimento sociale.

Il dove del linguaggio
Dunque non soltanto ognuno di noi può divenire «lo psicologo di sé stesso»: la scommessa implicita nella grande manovra cognitivo-comportamentale è che l’«alto funzionamento» non sia appannaggio esclusivo della sindrome di Asperger. Tutti, secondo il credo cognitivista, possono convertire il proprio handicap in risorsa e potenziare, così, la loro individualità. E tutti, proprio perché possono, devono farlo: lo ius delle neuroscienze è simile alla potentia, parafrasando Freud, di «Sua Maestà il cervello».

Sintesi equilibrata dello scienziato che osserva e dell’economista che sceglie, l’uomo neurale è massimamente raziocinante, in grado di mettere a frutto l’intero spettro della sua biodiversità passando, come si esprime uno schizofrenico di cui riferisce Billet citato da Ehrenberg, dalla triste condizione di handicappato a quella, più empowered, di «handicapace». La rettificazione cognitiva è il nome di questo transito e, perciò, anche la quintessenza di tutti gli «esercizi dell’autonomia», ossia di quelle tecniche riabilitative che mirano a ridurre le distorsioni e a promuovere, tramite il recupero, la cooperazione sociale. Grazie al sostegno del «terapeuta-alla-pari», l’anomalia di ogni paziente può essere integrata e incrementata, sebbene il prezzo di questa «creazione di valore» sia da pagarsi, molto spesso, in moneta normalizzante.
Il naturalismo che ispira l’ultima grande narrazione, quella appunto delle neuroscienze, è sì un naturalismo della regolarità, ma a differenza di quanto avveniva, ad esempio, in Hume, diventa – a partire dalla terza stagione del comportamentismo, in cui il primato dell’individuo sul mondo è rimpiazzato dal primato degli altri sull’individuo – sinonimo di «conformità». Conformità alle attese del coach che vuole il bene del suo «alleato morale», conformità alle aspettative della società che domanda a ciascuno di accettare la propria condizione di «persone con problemi risolvibili», conformità all’ideale sociale del self-control e della self-reliance che non lascia spazio allo sconforto.

Il limite dell’orientamento neuroscientifico fa corpo con la riduzione del linguaggio a mero contenitore di etichette da applicare al ritmo, profondamente anti-psicoanalitico, di una composta adequatio rei et intellectus. Ehrenberg sottolinea come le spiegazioni neurobiologiche forti si basino sulle cause materiali innescate da «meccanismi» cerebrali, e come, sotto questo aspetto, esse tradiscano un materialismo riduttivo anziché un naturalismo illuminato. Ma allora perché le neuroscienze godono di tanta buona stampa? Ehrenberg se lo chiede dopo aver interrogato, nella Fatica di essere sé stessi, il «successo sociologico» della depressione, «malattia della responsabilità» correlata non più al conflitto tra ciò che è socialmente permesso e ciò che è vietato, bensì alla «contrapposizione lacerante tra il possibile e l’impossibile».
La depressione è il contraccolpo psicopatologico dell’imperativo sociale a oltrepassare ogni limite, tipico della società del benessere. Ma anche nella Meccanica delle passioni, il tentativo di esorcizzare l’impossibile mediante la definizione di un individualismo dalle possibilità illimitate torna in ragione di un «cambio di atmosfera» che, più da vicino, oggi ci riguarda.

Se sul finire del XX secolo la diagnosi diffusa di depressione prendeva il posto di quella di nevrosi, agli albori del XXI, le neuroscienze si sostituiscono (o almeno puntano a farlo) alla psicoanalisi. Ma questo avvicendamento, si domanda Ehrenberg, quali scarti implica? Le neuroscienze, è vero, ambiscono a dimostrare la potenza causale dell’«organo decisore», ovvero il cervello, ma ciò che rende possibile l’attuazione delle sue capacità è, in realtà, la vita sociale. Focalizzarsi solo sui neuroni, quindi, porta a ben poco. «Là dove lo psicologo, il neuroscienziato o il sociologo cercano di ritagliare l’essere umano in compartimenti, questi scopre che tutto in lui è incrociato».
Per Ehrenberg, solo un pensiero che si faccia carico della complessità intrinseca alla natura umana può sopravvivere nel caos delle disuguaglianze contemporanee cui la «democraticizzazione dell’eccezionale» non sempre pone rimedio. Tra il dove della struttura e il come della funzione, tra lo stimolo e la risposta non ci sono solo intelligenza e libertà. L’intervallo tra la visione del bene e la sua realizzazione, scriveva già Freud nell’Io e l’Es, «Dio solo sa quanto è grande». E, se così si vuole, sembra dire Ehrenberg, possiamo anche smettere di invocare l’inconscio e assecondare la moderna infatuazione per il «cervello», purché con questo termine si intenda sia l’organo che l’ostacolo, sia la mente che il corpo, vale a dire tutta l’estensione della psiche, della quale è ancora ben poco quel che si sa.

Di quale altro parliamo
Le formule rituali di cui si vale il discorso neuroscientifico («il cervello è l’organo più complesso» e «siamo solo all’inizio») devono suscitare cautela più che entusiasmo, realismo più che ottimismo perché, se l’individuo dispone di uno zoccolo – il suo cervello – che gli permette di esplorare qualsivoglia capacità, la reazione terapeutica negativa è sempre dietro l’angolo. Come la psicoanalisi e il pessimismo di Freud hanno insegnato, il primo altro da cui l’individuo è diretto non è quello implicato nella teoria della mente – che consiste nella capacità di mettersi al posto dell’altro e inferirne i pensieri – ma quell’altro inafferrabile dai neuroni specchio, che si chiama inconscio e di cui, con buona pace delle neuroscienze, non c’è neuroimaging possibile.