«Alaa è stato torturato e umiliato, e adesso è in pericolo». La notte del 10 ottobre la famiglia dell’attivista e intellettuale Alaa Abdel Fattah ha lanciato l’allarme per le condizioni in cui è detenuto dal 29 settembre, quando è stato arrestato direttamente nella stazione di polizia in cui era costretto a passare tutte le notti.

IL GIORNO DOPO L’ARRESTO Alaa è stato trasferito nel famigerato braccio di massima sicurezza del carcere di Tora, insieme al suo avvocato Mohammed Baqer, inspiegabilmente preso anche lui durante l’interrogatorio a cui stava assistendo.

Alaa è arrivato in carcere bendato, lì è stato denudato e picchiato per la prima volta. Poi ha ricevuto quella che i detenuti chiamano la «parata di benvenuto», costretto cioè a camminare in un corridoio in cui è stato preso a schiaffi, calci e pugni dai secondini.

Dopo il pestaggio, di nuovo bendato, è stato portato da un ufficiale che gli ha spiegato «questa prigione è fatta per dare una lezione a quelli come te», per poi aggiungere «Io ti odio, e odio la rivoluzione».

Ma Alaa, nonostante le minacce, come sempre ha deciso di parlare, e nell’interrogatorio con il procuratore (che ha rinnovato l’ordine di detenzione per lui e per il suo avvocato) ha denunciato tutte le violazioni subite, pur consapevole che di lì a poco sarebbe tornato dritto nelle mani dei suoi aguzzini.

La sorella Mona e la madre sono costantemente in cerca di sue notizie, e finora sono riuscite ad ottenere una visita in cui hanno potuto constatare, attraverso un vetro, che finora non ci sono state ritorsioni.

Non è la prima volta che Alaa finisce in carcere. Volto simbolo della rivoluzione del 2011, l’attivista è stato arrestato sotto tutti i presidenti che hanno governato l’Egitto da Mubarak in poi.

È la prima volta però che subisce abusi fisici a questi livelli. Botte e torture sono la norma nelle stazioni di polizia e nelle carceri egiziane, ma finora le figure più importanti e più in vista erano state risparmiate da pratiche simili.

A quanto pare ormai il regime del presidente Abdel Fattah al-Sisi ha superato anche questa linea rossa. «Il fatto che Alaa sia stato arrestato – scrive la famiglia in un comunicato – non è una questione che riguarda lui in particolare. Ma è per mandare un messaggio a tutto il paese: non pensate neppure per un istante che vi permetteremo di protestare contro questo regime».

L’arresto di Alaa infatti rientra in quella che è la più vasta campagna di arresti politici da quando al-Sisi è al potere. Tutto è cominciato il 20 settembre, quando alcune rabbiose proteste contro il regime di al-Sisi sono esplose inaspettatamente nelle strade di diverse città dell’Egitto. Da allora 3.120 persone sono state arrestate, attivisti e attiviste, avvocati per i diritti umani, dirigenti di partiti di opposizione, ma soprattutto gente comune prelevata arbitrariamente in strada o nelle abitazioni. Tra questi ci sono anche 111 minori, alcuni dei quali appena undicenni, arrestati nel tragitto da casa a scuola.

TRA I FERMATI ci sono anche numerosi stranieri, sudanesi, turchi, yemeniti, ma anche europei. Due studenti di arabo dell’Università di Edimburgo, sono stati arrestati per alcuni giorni con l’accusa di spionaggio. In seguito all’incidente l’università scozzese ha chiesto a tutti i suoi studenti di tornare a casa.

Uno studente statunitense ha raccontato di essere stato bendato per circa 15 ore durante i quattro giorni che ha passato in una struttura detentiva con altre 300 persone, tutte arrestate in relazione alle proteste. La sua colpa era quella di avere salvati sul suo smartphone alcuni articoli sulle manifestazioni dei giorni precedenti.

E venerdì una giornalista italiana, Francesca Borri, è stata fermata per circa 24 ore al suo arrivo all’aeroporto del Cairo.

L’ambasciata si è immediatamente mobilitata per seguire il caso. Si è parlato di «accertamenti sul passaporto», ma alla fine alla giornalista è stato di fatto impedito l’accesso al paese. «Trattenuta per quello che penso e dico del regime di al-Sisi», ha twittato la freelance. «Ma onestamente, essendo una dei giornalisti che ha indagato sull’omicidio Regeni, per me questo ingresso negato in Egitto è una medaglia al valore». E proprio l’Unione Europea, di cui Giulio Regeni era cittadino, tace e «chiude un occhio» sulla repressione in corso in Egitto, come denuncia EuromedRights, una rete di Ong per i diritti umani.

Pochissime le condanne che si sono alzate (un pugno di parlamentari europei). Silenzio tombale dalla Farnesina.