«Sisi vuole fare tabula rasa dei Fratelli musulmani per controllare il sistema politico e impedire le candidature degli islamisti alle prossime elezioni parlamentari», dichiara al manifesto Ahmed Seif El Islam, fondatore del Centro legale per la difesa dei diritti umani Hisham Mubarak. «Ora Morsi (ex presidente deposto lo scorso 3 luglio con un colpo di stato militare, ndr) e l’intera leadership della Fratellanza rischiano la pena capitale», prosegue l’avvocato commentando la sentenza di lunedì della Corte di Minia, capoluogo dell’Alto Egitto, che ha condannato alla pena di morte 528 esponenti della Fratellanza.

Secondo Seif, Sisi sta facendo un uso politico della giustizia in vista della campagna elettorale. «La scioccante condanna a morte sommaria di Minia è un’iniziale campagna elettorale per le parlamentari. Ormai Sisi non si preoccupa più della vittoria alle presidenziali che dà per certa. Ma intende impedire a coloro che sono stati condannati a morte di potersi candidare alle elezioni», considera Seif.

«In altre parole, nel periodo di Sisi, il sistema legale egiziano diventa uno strumento per impedire la partecipazione politica. A questo punto Sisi è parte del problema e non ci può essere una soluzione politica se Sisi continua a svolgere le sue funzioni», denuncia Seif. Per questo la crisi politica continua ad aggravarsi mentre la repressione dell’opposizione avanza. «In questo modo Sisi rende impossibile ogni soluzione politica della crisi.

Eppure esiste un disaccordo tra gli esponenti del governo su come agire nei confronti della Fratellanza dopo le elezioni presidenziali: se mettere la parola fine al movimento o continuare a porre ostacoli politici per non risolvere la crisi», spiega Seif.

Sorprende poi la giustizia a orologeria che, da una parte, ha condannato oltre 500 persone, tra cui i leader del movimento, Mohammed Badie e Saad al Katatni, alla pena di morte e, dall’altra, ha concesso la libertà su cauzione all’attivista di sinistra Alaa Abdel Fatteh, figlio di Seif El Islam.

«Le due sentenze hanno un collegamento. Si tratta di un messaggio politico chiaro da parte di Sisi: «La nostra battaglia è contro la Fratellanza». Questo ha determinato la decisione di portare l’una e l’altra causa ad una certa camera di Consiglio con lo scopo di rendere impossibile una soluzione politica con la Fratellanza ma di tenere a bada l’opposizione secolare», aggiunge Seif.

Questo richiama alla mente il grave deficit democratico che attraversa il sistema giudiziario egiziano. «Dal 2006 ci battiamo per l’indipendenza reale della magistratura dall’esecutivo. Ora i giudici dipendono ancora dall’apparato di sicurezza.

E la giustizia viene usata come strumento politico contro il nemico del regime. E così i giudici ora operano per compiacere Sisi. In alcuni casi lo fanno anche senza attendere ordini specifici dall’alto ma soltanto per servire il regime. É solo dalla riorganizzazione del ruolo dell’esercito nella vita politica che può crescere una nuova società democratica», conclude Seif.

E così prosegue la disumanizzazione degli affiliati al principale partito di opposizione. Ieri il processo di Minia ha portato alla sbarra altri 683 imputanti per i quali il verdetto è atteso per il prossimo 28 aprile.

Gli avvocati della difesa hanno denunciato il giudice del tribunale di Minia perché ha continuato a interrogare gli imputanti in assenza dei loro legali. A tuonare contro la sentenza dello scorso lunedì sono arrivate ieri le critiche delle Nazioni unite e dell’Unione europea.

«Una violazione della legge internazionale sui diritti umani», ha commentato Rupert Colville, portavoce dell’Alto Commissariato delle Nazioni unite per i diritti umani.

L’Alto rappresentante per la politica Estera dell’Ue, Catherine Ashton ha difeso il diritto dei condannati a un «processo giusto». Televisioni pubbliche e private in Egitto, profondamente allineate sulle posizioni dell’esercito dal giorno del colpo di Stato, hanno invece festeggiato le condanne a morte di Minia. Alcuni presentatori hanno inneggiato ai giudici egiziani (tra loro Ahmed Moussa, Rania Badawy e Naela Omara).

I processi in corso si riferiscono alle violenze seguenti allo sgombero forzato delle piazze occupate dagli islamisti dopo l’arresto di Morsi la scorsa estate. Da allora sono 16mila i detenuti islamisti in attesa di processo, molti dei quali in carcere senza accuse precise. Non solo, perché le indagini sulle violenze di Rabaa al Adaweya sono state costantemente inquinate.

Ne sono l’esempio i risultati dell’inchiesta del Consiglio nazionale per i diritti umani. L’ente filogovernativo ha presentato la scorsa settimana il documento finale sulla strage di Rabaa. Nel report si parla di 662 morti. Nel testo si riferisce di torture contro i partecipanti al sit-in e si stigmatizza l’uso della violenza da parte della Fratellanza. Si ammette soltanto l’inadeguatezza dei passaggi per permettere agli attivisti di uscire dalla piazza prima che le forze di sicurezza procedessero con lo sgombero violento.

Organizzazioni dei diritti umani e ong indipendenti parlano di una lista di morti ben più lunga. In alcuni casi si riferisce di oltre 2800 scomparsi il 14 agosto scorso, tra i partecipanti ai sit-in al Cairo.
Una riunione della Fratellanza, prevista pochi giorni fa a Garden City, per protestare contro i risultati delle indagini ufficiali sulla strage, è stata bloccata dalle forze di sicurezza.