Con un post su Facebook carico di enfasi, alla fine di ottobre il presidente egiziano Abdel Fattah El Sisi ha annunciato la fine dello stato d’emergenza in vigore nel paese da quarant’anni, con una pausa tra il 2012 e il 2017: «L’Egitto è diventato un’oasi di sicurezza e stabilità nella regione. Quindi si è deciso di annullare la proroga dello stato di emergenza». Parole foriere, solo in apparenza, di una nuova era. E invece non ci sono motivi per essere ottimisti. Solo chi si ostina a non vedere può credere che gli apparati di sicurezza egiziani cesseranno di eseguire arresti di massa e incarcerare senza processo i detenuti, di processare i civili nei tribunali militari, di reprimere con la forza manifestazioni e chiudere le organizzazioni della società civile in difesa dei diritti umani. Non deve ingannare l’apertura del nuovo complesso carcerario di Wadi al-Natroun, il più grande del paese, dove, assicurano fonti governative, saranno garantite la dignità e la qualità della vita dei detenuti.

Con l’abrogazione dello stato d’emergenza, l’Egitto non è tornato, e non tornerà sotto l’attuale regime, allo stato di diritto in cui i cittadini saranno rispettati da polizia e intelligence, giudicati in tribunali normali e non speciali e godere di ampie tutele. E non saranno liberati i prigionieri politici che a migliaia affollano le carceri. Peraltro, non è passato inosservato l’aumento, nelle settimane precedenti all’annuncio di El Sisi, di arresti e detenzioni per i reati d’opinione – quelli che il regime considera «reati di terrorismo» – in modo che potessero rientrare temporalmente ancora nella legislazione speciale. In ogni caso la maggior parte dei divieti e delle sanzioni sono nascosti all’interno di un numero infinito di leggi, oltre a derivare dallo status speciale di cui godono le Forze armate.

Le leggi che limitano l’attività delle ong per i diritti umani sono state emanate al di fuori del quadro dello stato di emergenza e restano in vigore. Queste ong saranno ancora costrette a richiedere il permesso di operare alla Direzione generale dell’intelligence, al ministero dell’interno e, se tutto andrà bene, dovranno aspettare mesi o forse anni prima di poter svolgere il loro lavoro di monitoraggio. I mezzi d’informazione oggi non solo più liberi e tutelati di due mesi fa e i giornalisti continueranno ad autocensurarsi per non dover partecipare alla tanto temuta «conversazione telefonica amichevole» con funzionari degli apparati di sicurezza.

«Dal colpo di stato militare del luglio 2013, il governo ha emesso dozzine di leggi che devono essere emendate o abrogate. Altrimenti, la revoca dello stato di emergenza migliorerà poco o nulla», spiega Amr Magdi, ricercatore per il Medio Oriente e il Nord Africa di Human Rights Watch. Da quando El Sisi è al potere, ricorda Magdi, il governo ha introdotto dozzine di leggi che conferiscono alle forze di sicurezza poteri eccezionali. Come la legge anti-protesta del 2013 che vieta quasi tutte le forme di raduni pacifici e che ha portato all’arresto e al perseguimento di migliaia di persone. La legge per la lotta al terrorismo, del 2015, considera un reato anche la disobbedienza civile ed è stata usata in abbondanza per reprimere il dissenso pacifico e mettere a tacere chi critica il regime di El Sisi. Restano in vigore gli emendamenti del 2013 al codice di procedura penale che consentono la custodia cautelare virtualmente indefinita dei sospetti e che hanno aggiunto altre migliaia di persone, rinchiuse senza processo, alla massa dei detenuti politici.

L’abrogazione dello stato d’emergenza è solo fumo negli occhi, un mezzo per evitare sanzioni all’Egitto per la violazione dei diritti umani, come i 130 milioni di dollari in aiuti congelati dagli Stati uniti. Ma è anche se non soprattutto un alibi per Usa, membri dell’Ue e altri paesi per continuare a fornire sostegno militare, economico e politico al Cairo nonostante i crimini che commettono i suoi apparati di sicurezza. Il presidente Usa Joe Biden e altri leader, chiede Human Rights Watch, non dovrebbero incontrare El Sisi in assenza di progressi significativi nel rispetto dei diritti umani e della libertà di espressione, e non accontentarsi della revoca dello stato di emergenza.