L’ondata di scioperi del febbraio 2014 che ha costretto alle dimissioni il governo di Hazem al Beblaui, avrebbe dovuto rappresentare un’affermazione importante per il movimento operaio egiziano. Per la prima volta dal 3 luglio 2013, giorno della destituzione del presidente Mohamed Morsi (dei Fratelli musulmani), nei servizi pubblici e nel settore industriale dello Stato si sono verificati scioperi di grande portata: i lavoratori del settore tessile e manifatturiero, dei trasporti e dei servizi di pulizia si sono uniti a quelli delle poste, della sanità e del settore giustizia. Si sono poi aggiunte decine di scioperi e altre iniziative da parte del settore privato. Solo per il mese di febbraio 2014, il Centro al Marusa per lo sviluppo socioeconomico ha recensito oltre un migliaio fra sit-in, scioperi e manifestazioni, con oltre 250mila partecipanti, contro meno di 50 azioni in gennaio e circa 400 in marzo.

L’importanza di quest’ondata di contestazione non dipende solo dalla sua ampiezza ma anche dal contesto in cui si è sviluppata. Nei primi cinque mesi del 2013, il movimento operaio, particolarmente attivo, aveva saputo mobilitare centinaia di migliaia di persone, prima di ridimensionarsi dopo la caduta del presidente Morsi. A quel punto si assisteva perlopiù a proteste sporadiche, represse con violenza dal potere nato dal colpo di Stato del 3 luglio 2013. Mentre le forze dell’ordine disperdevano gli assembramenti, gli scioperanti e i loro leader venivano accusati di appartenere ai Fratelli musulmani.

La campagna di intimidazione ha funzionato così bene che, dopo la pubblicazione di un programma che prevedeva l’adozione di una nuova costituzione seguita dalle elezioni presidenziali e da quelle legislative, le principali organizzazioni sindacali hanno firmato comunicati a sostegno del nuovo regime, impegnandosi a rinunciare allo sciopero per appoggiare meglio la sua «lotta contro il terrorismo». La Federazione sindacale indipendente, controllata dal governo, e i due principali sindacati indipendenti – la Federazione egiziana dei sindacati indipendenti, nata durante la rivoluzione del gennaio 2011, e il Congresso democratico del lavoro – si sono pronunciati in questo senso. La nomina del presidente della Federazione indipendente, Kamel Abu Eita, alla carica di ministro del lavoro ha suscitato numerose critiche interne. Del resto, in seguito egli è rimasto in silenzio di fronte alla repressione degli scioperi da parte delle autorità.

La ripresa della mobilitazione a partire dal febbraio 2014 ha segnato dunque una svolta importante. Il movimento operaio è arrivato a spezzare la bipolarizzazione: Stato da una parte, Fratelli musulmani dall’altra. Per la prima volta, il governo è stato oggetto di proteste popolari senza che i Fratelli musulmani siano stati coinvolti, anche se il potere ha tentato ancora – ma invano – di farlo credere. Le mobilitazioni si sono verificate principalmente nei settori (tessile, trasporti, salute ecc.) nei quali nel 2012 e 2013 era scoppiata la protesta dei lavoratori contro Morsi.

In questo modo il movimento operaio ha evidenziato il fallimento del nuovo potere sul piano economico e sociale, ma anche i suoi tentativi di scrollarsi di dosso le responsabilità invocando la «lotta contro il terrorismo». Al cuore delle rivendicazioni, il salario minimo. Che è già stato introdotto, ma in modo così pregiudiziale e incompleto che gli operai, invece di accogliere favorevolmente la misura, vi hanno visto una provocazione.

Nel settembre 2013, il salario minimo è stato fissato a 1.200 lire egiziane (127 euro, circa), conformemente a quanto chiedevano i lavoratori dal 2008. Ma solo per i funzionari; secondo l’Agenzia centrale di statistica, si tratta all’incirca di sei milioni di persone, solo un terzo delle quali in precedenza avevano un salario inferiore. Sono esclusi i diciotto milioni di lavoratori impiegati non direttamente dallo Stato, ma da istituzioni che ne dipendono, come le poste, le ferrovie e i trasporti. Del resto, gli stessi lavoratori del settore pubblico hanno visto i loro salari ridursi, con un reddito medio settimanale che rimane intorno alle 300 lire. Una buona parte dei lavoratori guadagna dunque meno del salario minimo richiesto dai sindacati. Infine, l’introduzione della misura è servita da pretesto per aumenti dei prezzi, penalizzando doppiamente quelli i cui salari sono rimasti invariati.

Il movimento è stato spettacolare, i suoi risultati tuttavia non sono stati all’altezza delle attese. Al governo Beblaui ne è succeduto un altro nel quale predominano i ministri del vecchio regime. Il nuovo primo ministro, Ibrahim Mahlab, è andato a Mamallah, importante centro industriale a nord del Cairo, per appellarsi alla pazienza degli operai: «Non abbiamo una bacchetta magica che ci permette di risolvere tutti i problemi». L’attuale ministra del lavoro, Nahed al Ashri, una superstite del regime del presidente Hosmi Mubarak, è nota per essersi sempre schierata dalla parte del padronato, come hanno detto i sindacati di Suez. Anche gli operai dell’impresa Cristal, che dà lavoro a 14mila persone a Choubra al Kheima (Cairo), hanno denunciato la sua posizione di parte in occasione dello sciopero del maggio scorso, quando chiedevano l’applicazione di accordi firmati nel novembre 2013, sotto l’egida del ministro precedente.

Dopo la nomina di questo governo, la repressione si è acuita, con l’arresto di diversi dirigenti sindacali e la loro incriminazione per «disturbo dell’ordine pubblico», «incitamento alla violenza» e «attentato alla sicurezza nazionale».

Il giro di vite poliziesco ha colpito in primo luogo il settore delle poste, i cui rappresentanti sono stati arrestati, percossi e torturati. In seguito a uno sciopero per chiedere un aumento salariale in un’impresa di ceramica di proprietà di un membro del vecchio Partito nazionale democratico di Mubarak, i servizi di sicurezza hanno intimidito e minacciato gli operai per spingere alle dimissioni venticinque loro dirigenti. Il colmo è certo stato l’arresto, a Port Said, di tre operai della Egyptian Propylene & Polypropylene Company (Eppc). Sulla base di quanto previsto dalla legge, in quanto rappresentanti del personale essi si erano recati al commissariato per comunicare l’organizzazione di un sit-in; l’obiettivo era chiedere il miglioramento delle condizioni di lavoro e il pagamento degli arretrati. Ma sono stati arrestati, qualche giorno prima delle celebrazioni del 1 maggio. Liberati dopo quattro giorni, hanno subito raggiunto il movimento di protesta lanciato dai colleghi per protestare contro la loro detenzione.

Non c’è niente di nuovo nel contrasto fra l’importanza del movimento operaio e la modestia delle sue conquiste. Esso cerca di spingere avanti il processo rivoluzionario, ma senza riuscire a invertire stabilmente a proprio favore i rapporti di forza. Alla vigilia della rivolta del gennaio 2011 è stato particolarmente attivo, con oltre due milioni di scioperanti. Ha giocato un ruolo determinante nella caduta del regime di Mubarak, moltiplicando le occupazioni dei siti, prendendo in ostaggio responsabili statali, e facendo appello allo sciopero generale. Ma, dopo le dimissioni del rais, contro il movimento operaio si è scatenata una lotta implacabile, motivata dal fatto che gli scioperi nuocerebbero alla rivoluzione.

Il Consiglio supremo delle forze armate (Csfa), che aveva assunto le redini dello Stato nel febbraio 2011, ha legiferato per vietare il diritto di sciopero e far processare gli organizzatori da tribunali militari. Una manovra poi ripetuta sotto la presidenza di Morsi. Senza raggiungere l’obiettivo.

Al contrario: si sono ingrossate le fila degli scontenti. Secondo un rapporto del Centro egiziano per i diritti economici e sociali, nel 2012 ci sono stati più scioperi che nei dieci anni che hanno preceduto la rivoluzione. Nel 2013, secondo uno studio del Centro per lo sviluppo della democrazia, gli scioperi dei primi cinque mesi sono stati ancora più importanti di quelli dell’anno precedente.
Oltre alla repressione del potere, chi protesta deve fare i conti anche con i freni posti dalle rispettive centrali sindacali. Queste sono più attente a contenere le spinte alla protesta che a farsi interpreti delle rivendicazioni della base. Dal 1957, il paesaggio è dominato dalla Federazione sindacale egiziana, fondata dal presidente Gamal Abdel Nasser. Completamente infeudata al potere statale, non ha avuto alcun ruolo nello sviluppo del movimento operaio. Anzi, spesso ha preso posizione contro scioperi e manifestazioni.

La nascita di sindacati indipendenti, nel 2008, ha segnato la fine del suo monopolio. Nate dall’unione di comitati operai di base in lotta, le nuove organizzazioni avevano tutte le caratteristiche per guadagnarsi la fiducia dei lavoratori e mobilitarli in modo massiccio. Inoltre, la scelta di piazza Tahrir, epicentro della rivoluzione del 2011, per l’atto di fondazione della federazione indipendente, aveva un grande valore simbolico.

Successivamente, questo percorso verso l’autonomia è andato avanti, ma le speranze sono ben presto svanite. Dopo la creazione della federazione, non hanno tardato a manifestarsi i primi contrasti fra i dirigenti, e si è verificata una scissione, con la creazione del Congresso democratico del lavoro. La tensione è stata acuita dalla concorrenza per ottenere il monopolio della rappresentazione degli operai egiziani negli organismi internazionali e nei negoziati con lo Stato. Infine, dopo il 3 luglio 2013, l’appello a sostenere il potere diretto dal maresciallo Abdel Fattah al Sisi ha causato nuove spaccature interne.

Approfittando dei suoi legami con lo Stato, la federazione ufficiale è riuscita a rafforzarsi e a consolidare la sua posizione. Sul campo, nei trasporti pubblici, nelle ferrovie, nelle poste, le sezioni locali dei sindacati indipendenti, o a volte del sindacato ufficiale, hanno giocato un ruolo attivo. A livello degli apparati, la tendenza è alla paralisi burocratica, alla dispersione, alla perdita di contatto con le preoccupazioni quotidiane e le condizioni di vita della base. Allineandosi con il nuovo potere dopo il 3 luglio 2013 e rinunciando allo sciopero, i dirigenti dei sindacati indipendenti si sono avviati su un cammino pericoloso; c’è in effetti il grande rischio di vederli diventare una copia conforme dei loro omologhi della federazione ufficiale.

Questa debolezza delle organizzazioni sindacali spiega la direzione presa dagli eventi politici all’indomani della rivoluzione. In questo senso il confronto con la Tunisia è chiarificatore: di fronte alla sollevazione popolare, l’Unione generale tunisina del lavoro (Ugtt) dapprima ha esitato, poi si è decisa, su pressione della base, a intervenire con forza sulla scena politica. Non è andata così in Egitto, dove le enormi masse operaie messe in movimento prima e dopo la rivoluzione non hanno mai potuto esercitare un’influenza stabile, né contribuire all’affermazione di un potere davvero diverso dal regime deposto.

Dopo l’investitura del maresciallo al Sissi alla presidenza della Repubblica, lo scorso 8 giugno, è stato chiaro che il governo non aveva affatto l’intenzione di migliorare la condizione operaia. Dispiegando una retorica populista a base di inviti ad alzarsi presto, lavorare di buona lena e dimenticare le rivendicazioni corporative, il presidente ha in effetti optato per una politica di radicale austerità. Ha richiesto la revisione del bilancio elaborato dal governo nel senso di una riduzione dell’indebitamento pubblico, mediante la riduzione dei sussidi all’energia e l’introduzione di nuove tasse. Il prezzo dei combustibili è cresciuto in modo rilevante, con aumenti ripartiti in modo iniquo: per esempio il prezzo del gas naturale è aumentato del 175% per i veicoli del trasporto pubblico, ma solo del 30-40% per le fabbriche, che ne consumano moltissimo. Al tempo stesso, il prezzo della benzina destinata ai taxi e alle automobili di categoria inferiore è salito del 75%, quello della benzina di prima scelta solo del 40%. Ne sono seguiti aumenti incontrollabili nei prezzi dei trasporti e della produzione in tutto il paese. È dunque lecito attendersi nuove ondate di protesta: già i tassisti hanno organizzato scioperi e picchetti in diversi governatorati.

*(Traduzione di Marinella Correggia)
Copyright Le Monde diplomatique/ilmanifesto