Un anno fa la ministra della sanità Hala Zayed fece infuriare centinaia di migliaia di farmacisti affermando che «la mancanza di un medico o di un infermiere pesa molto di più di quella di 100 farmacisti». Molti intesero quelle parole come un riconoscimento del lavoro nelle strutture ospedaliere governative dove un dottore riceve uno stipendio tra i 130 e i 200 euro (più 1 dollaro al mese di indennità di rischio) e come una promessa di attenzione verso la sanità nel suo complesso. E invece, nel pieno dell’emergenza Covid-19 (fino a ieri 28.615 positivi e 1.088 decessi), è emersa evidente la solitudine in cui medici ed infermieri egiziani sono stati lasciati nella battaglia contro il nuovo coronavirus. «Siamo trattati allo stesso modo dei pazienti. Se manifestiamo dei sintomi gravi ci viene chiesto di andare a casa e di metterci in quarantena ma non ci è permesso di essere testati», ha raccontato un medico al Guardian. Privi in molti casi dell’equipaggiamento necessario per proteggersi, costretti a lavorare in ospedali fatiscenti o non attrezzati a garantire la loro sicurezza e cure adeguate ai pazienti, non sorprende che 19 medici egiziani siano stati uccisi dall’infezione e altri 350 siano rimasti contagiati. Non è noto il bilancio di vittime e ammalati tra gli infermieri ma si presume altrettanto elevato.

 

«Esercito bianco». Così la stampa nazionale aveva definito i medici nelle prime settimane della pandemia sottolineando l’impegno della categoria in prima linea contro il virus. Ma quando il mese scorso l’associazione dei medici egiziani ha avviato una campagna di proteste, invocando attrezzature e l’adozione adeguate al pericolo nei 350 ospedali pubblici e privati dedicati ai colpiti dal Covid-19, l’«Esercito bianco» è stato trasformato in un nemico del popolo dalle autorità di governo e dalla stampa addomesticata. La ministra Zayed ha smentito la carenza di macchinari ed equipaggiamento protettivo negli ospedali, aggiungendo di aver garantito a tutti i reparti dedicati al coronavirus almeno 20 posti di terapia intensiva o subintensiva. Un noto megafono del regime, l’opinionista Wael El Abrashi, ha accusato una «minoranza di medici» di «manipolare» tutta la categoria per garantirsi privilegi. Quindi è sceso in campo il presidente Abdel Fattah el Sisi che, rivolgendosi ai medici, ha dichiarato «Questo è il momento di mostrare solidarietà alla popolazione del vostro paese e di affrontare insieme la crisi». Parole che hanno fornito altra benzina ai sostenitori del regime che sui social hanno lanciato insulti ai medici, descrivendoli come «traditori che si curano solo dei propri interessi». Fuoco e fiamme hanno investito i medici quando hanno messo in dubbio l’interruzione delle misure di contenimento del virus approvate dal governo di Mustafa Madbouly all’inizio della pandemia. Risollevare subito l’economia è diventato lo slogan di tutti in un paese dove un terzo dei 100 milioni di abitanti vive al di sotto della soglia di povertà e che di recente, per sopravvivere, ha accettato un prestito di 2,8 miliardi di dollari dal Fondo monetario internazionale.

 

Non sono mancate però anche voci a sostegno dei medici. Tanti hanno ricordato che l’Egitto ha speso risorse immense per progetti faraonici initili, trascurando investimenti fondamentali per l’assistenza sanitaria pubblica. E non è passato inosservata la decisione di El Sisi di non mettere a disposizione dei malati da Covid-19 gli ospedali dell’esercito considerati i meglio attrezzati del paese. Le Forze armate egiziane ricevono dagli Usa aiuti annuali per oltre due miliardi di dollari e godono di privilegi immensi. Quando è stato chiesto ai vertici del ministero della sanità il motivo della chiusura al pubblico degli ospedali militari, la risposta è stata: «Ci sono abbastanza ospedali civili per affrontare la pandemia».