Oggi e lunedì finalmente si vota in 27 governatorati in Egitto per le parlamentari (il secondo turno si svolgerà a fine novembre).

Ben poco dell’atmosfera delle grandi e piccole città egiziane farebbe presagire che le elezioni politiche siano alle porte, per eleggere quel parlamento sciolto dalla giunta militare (il cosiddetto Scaf) nel giugno 2012 e mai più rieletto. Eppure le elezioni parlamentari erano uno dei pilastri della road map presentata agli egiziani dall’alleanza che aveva deposto il presidente Morsi il 3 luglio 2013 con il decisivo intervento dell’esercito, dopo disordini e manifestazioni che erano sfociate in violenze ben prima della «grande manifestazione» del 30 giugno.

Ovviamente, se si pensa che l’intervento delle forze armate, oltre ad acutizzare la polarizzazione politica, ricacciando brutalmente la Fratellanza musulmana nell’illegalità, ha di fatto spinto l’astro dell’allora capo dell’esercito al-Sisi fino alla presidenza della Repubblica, si può capire perché pochi egiziani provino alcun entusiasmo all’idea di andare a votare.

Nonostante i ritardi e le lacune del processo di revisione della legge elettorale, sarebbe fuorviante credere, come peraltro alcuni hanno scritto negli ultimi mesi, che si tratti di una questione meramente legale o formale. Invece, si tratta chiaramente di una questione politica e la tiepida campagna elettorale di queste settimane non solo rispecchia lo stato di apatia – se non agonia – in cui versa la classe politica egiziana, ma è anche indicativa del momento del paese a quasi cinque anni dalla Rivoluzione di gennaio che aveva abbattuto il trentennale regime di Hosni Mubarak e acceso grandi speranze di cambiamento in Egitto e altrove.

Invece, solo i pochissimi che ancora si ostinano a negare l’evidenza oggi possono non vedere la realtà di un regime autoritario.

La scarsa attenzione popolare alla campagna elettorale in corso è dovuta alla consapevolezza del ritorno di un regime repressivo che fin dall’inizio non ha esitato a ricorrere alla violenza. La rapida chiusura di quello che era stato lo spazio privilegiato d’azione politica postrivoluzionaria, la strada, e la criminalizzazione di fatto di qualsiasi iniziativa politica indipendente come attività antipatriottica, hanno fatto scomparire quasi del tutto il dibattito politico che aveva animato in maniera del tutto nuova il paese all’indomani della caduta di Mubarak.

In tale situazione, ancora prima dell’ascesa di al-Sisi alla presidenza nel maggio 2014, i mass media e i vari «esperti», oramai ridotti a meri corifei del regime, si sono affrettati a convincere il pubblico che il parlamento, in quanto tipico strumento democratico, fosse un orpello che un paese in guerra contro il «terrore islamista» non poteva permettersi.

Se ciò è vero, la riluttanza di al-Sisi a convocare le elezioni e i continui rinvii si possono spiegare se si accetta il fatto che lungi dal creare un vasto consenso e una nuova classe politica, l’ascesa del nuovo uomo forte ha creato un vuoto di politica e di personale.
Infatti, confutando la troppo semplicistica osservazione che al-Sisi è la semplice riproposizione del regime mubarakiano, è chiaro che il presidente non aveva – e forse non ha ancora – una classe politica a cui appoggiarsi e che non si fida troppo di giovani e vecchi esponenti dell’ancien régime, nonostante il rinato partito dei Liberi egiziani, guidato dal miliardario Sawiris, sembra essersi candidato a tale ruolo nelle ultime settimane.

Pertanto, come in tutti i contesti autoritari, l’interesse delle elezioni non sta certo nel rilancio della dialettica democratica tra governo ed opposizioni, quanto nella riconfigurazione del potere, almeno in parte, all’interno o ai margini del nuovo regime. Il paese reale non sarà rappresentato in parlamento, come peraltro già succedeva sotto Mubarak o Sadat.

Certamente una grossa parte della popolazione continua a sostenere al-Sisi, ma non solo il supporto sembra essere in lenta caduta, ma il rais non è riuscito finora né a risolvere la questione della sicurezza, né a proporre una soluzione alla polarizzazione del paese né tantomeno a rispondere all’ancora viva richiesta di piazza Tahrir di dignità e giustizia sociale.

E mentre vecchi e nuovi uomini d’affari cercano di accaparrarsi voti che permetteranno loro di trattare per farsi cooptare dal nuovo potere ancora in formazione da una posizione di privilegio, continuano, nonostante gli arresti, le intimidazioni e gli abusi, gli scioperi e le manifestazioni di chi vive sulla propria pelle i limiti del «nuovo Egitto» annunciato da al-Sisi e venduto al pubblico dai suoi corifei nei media locali e internazionali.