C’è apprensione per le condizioni di Alaa Abdel Fattah al suo tredicesimo giorno di sciopero della fame nel carcere di massima sicurezza di Tora 2, a sud del Cairo.

L’attivista 37enne, icona della rivolta di piazza Tahrir, il 13 aprile ha cominciato un’astensione assoluta dal cibo, assumendo solo acqua e bevande calde senza zucchero. Tra i motivi della sua iniziativa c’è soprattutto il prolungamento a oltranza della sua detenzione, illegittima una volta trascorso il termine di 45 giorni dall’ultima udienza.

ALAA, ACCUSATO DI REATI pesantissimi, tra cui adesione a un gruppo terroristico, si trova in carcere ormai da quasi sette mesi senza alcuna condanna, sottoposto a custodia cautelare in attesa di processo. A questo si aggiunge la negazione dei più basilari diritti, come la lettura e l’esercizio fisico.

La famiglia denuncia che i parametri vitali di Alaa, comunicati dalla procura, indicano già un deterioramento rapido della sua salute. Sulla decisione di intraprendere questa forma radicale di protesta ha pesato molto anche la condizione imposta ai detenuti egiziani in conseguenza dell’epidemia di coronavirus. Dal 10 marzo infatti sono state sospese tutte le visite, e nessuna notizia entra o esce dalle carceri.

«I FAMILIARI, da entrambi i lati delle mura della prigione, vengono tenuti in uno stato di panico», hanno scritto in un documento i parenti dell’attivista. «Alaa storicamente ha sempre usato la sua figura, il suo corpo e le sue parole per combattere l’ingiustizia, subita da lui o da altri. Entrando in sciopero della fame ora vuole attirare l’attenzione sul dramma di decine di migliaia di prigionieri», ha affermato la celebre scrittrice Ahdaf Soueif, zia di Alaa Abdel Fattah.

A metà marzo la madre, la sorella e la zia di Alaa, anche loro militanti di primo piano, erano state arrestate per alcune ore e poi rilasciate per una protesta in cui chiedevano la liberazione dei detenuti per evitare il contagio nelle carceri.

Celle sporche, sovraffollate, senza acqua corrente e scarsamente areate, insieme alla sistematica mancanza di assistenza medica, sono la norma nelle prigioni egiziane e rappresentano condizioni perfette per il propagarsi dell’infezione. Secondo recenti stime dell’Onu i detenuti egiziani sarebbero 114.000, quasi il doppio rispetto alle cifre ufficiali diffuse dal governo. Di questi almeno 60.000 sarebbero prigionieri politici, per lo più arrestati dopo il colpo di stato militare del 2013.

DA OLTRE UN MESE organizzazioni egiziane e internazionali stanno chiedendo al regime di liberare il maggior numero possibile di detenuti, a cominciare da chi, come Alaa, non sta scontando alcuna condanna (almeno 25.000 persone secondo dati del governo).

Eppure, a parte 15 attivisti liberati a metà marzo su ordine della magistratura, al-Sisi ha proclamato solo una mini-amnistia del tutto insufficiente.

La situazione delle carceri egiziane in tempo di pandemia è arrivata persino a interessare il Segretario di stato Usa Mike Pompeo, che in una telefonata al ministro degli Esteri egiziano Sameh Shoukry ha chiesto rassicurazioni sui diritti e la sicurezza dei cittadini statunitensi detenuti in Egitto.

Da circa un mese infatti è in sciopero della fame anche Mohamed al-Amashah, giovane con doppia cittadinanza trattenuto da un anno nel complesso di Tora in attesa di processo.

AFFETTO DA UNA MALATTIA autoimmune e da asma, al-Amashah rischia di subire la stessa sorte di Mostafa Kassem, altro cittadino egiziano-americano morto in carcere a gennaio dopo un lungo sciopero della fame. Intanto mercoledì il parlamento ha modificato la legge di emergenza ampliando i poteri della presidenza e delle procure militari, ufficialmente per combattere l’epidemia.

Finora in Egitto si sono registrati 4.092 casi di persone positive al Covid-19, e 294 morti correlate. Il regime egiziano, che dal 25 marzo ha imposto il coprifuoco notturno in tutto il paese, è sotto accusa da più parti per le carenze strutturali del sistema e una gestione tutt’altro che trasparente dell’epidemia.