Eftimios

4/41. Papà, Eftimios si muove davanti allo specchio.

Primo pomeriggio di una primavera di tanti anni fa.

Sto dipingendo un muro esterno della casa tra gli alberi al lago (millenovecentottantaquattro, doveva essere) e arriva di corsa Nefeli. Come una nuvola, ‘nefeli’ in greco vuol dire nuvola bianca, ma non è bianca, è annuvolata. Cerca le parole, senza fiato, senza capire. Poi: “Papà, Eftimios si muove davanti allo specchio…” La guardo dall’alto del ponteggio, le sorrido, guardandola scendo. “Andiamo, dove?” “Nel bagno di sopra.”

È davanti allo specchio grande. Si osserva muoversi. Non vuole muoversi e si muove, piccoli movimenti del capo, come torcimenti di un serpentello spezzato da un colpo caduto non sa da dove. Vuole sorridermi, non può. Mi guarda. Nefeli è dietro di me, al fianco, ne percepisco l’ombra. Metto le mani sulle spalle di entrambi: “Hai battuto da qualche parte? – dico a lui. “No… Sì, ieri a scuola.” “Dove?” “Alla porta del campetto di calcio, nell’ora di Educazione Fisica…” “Ah…”

Scendiamo di sotto. Lei non c’è, è a Roma. Ci prepariamo, dico che tanto il lavoro è finito, saliamo in auto e torniamo in città, scivolando lungo i sentieri sterrati, dentro le gallerie di alberi del bosco, la Cassia, la Storta, le teorie di palazzine ignare nel sole che cala. Lo guardo, mi guarda. Le altre auto ci sfrecciano intorno, ci superano. “Dove corrono, Eftimios?” Senza guardarmi: “Verso la morte, papà.” “Esatto.” Sorrido e: “Stiamo arrivando.”

“Contro la porta del campetto? E il professore che ha fatto?” – domanda lei. “Niente. Mi ha chiesto se avevo battuto la testa.” “Dove?” “Qui”, e si tocca la tempia destra. “E senti male, ora?” “No.” Lei ed io ci guardiamo, in silenzio. È sera, Eftimios è a letto, anche Nefeli è a letto. Abbiamo ospiti a cena. Vado a dare ad entrambi il bacio della buonanotte. Carezzo la fronte di lui. Dopo, siamo nella sala, chiacchieriamo con gli amici. Si apre piano la porta in fondo. Fanno capolino lui e lei, in pigiama. “Ma… voi vi state divertendo…” Tutti ridono. “E va bene, ma cinque minuti, eh?”

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