Possiamo passare molto tempo a discorrere dei dati e delle loro virtù, se opportunamente filtrati da capaci algoritmi, ma nessuno ci toglierà dalla testa l’impressione di essere stati aggirati un’altra volta, ossia reificati, oggettivizzati, sacrificati sull’altare dell’efficienza.
Sia chiaro: quando si parla di algoritmi, nel contesto del web, il vantaggio è di chi è disposto a investire grandi somme di denaro per ottenere ancora più denaro. Hai presente il capitalismo?
È lo stesso per i bitcoin, la cui produzione di calcolo – cioè l’attività di mining necessaria alla loro creazione – è ormai talmente onerosa da essere plausibile solo per i soliti grandi attori economici e finanziari. Oggi esistono moltissime criptovalute e sperimentazioni in corso, ma il rischio che vengano «monopolizzate» è sempre presente.
D’altra parte l’utilità della blockchain – la tecnologia alla base delle monete digitali – è soprattutto quella di sostenere la proprietà privata senza la garanzia degli Stati, il sogno di ogni anarco-capitalista che si avvera.
Dominique Cardon nel suo ultimo libro pubblicato in Italia – Che cosa sognano gli algoritmi, Mondadori – ci dice che non ne dobbiamo avere paura perché sono nostri alleati, ossia ci aiutano a orientarci nel mare magnum della società dell’informazione, drenando i dati per noi più utili. Insomma gli algoritmi ci soccorrono in sempre più numerose operazioni, a cominciare dalla fatica di scegliere, e naturalmente rendono la nostra performance più efficiente.

Per fare in modo che siano davvero utili «per noi» basterebbe, dice il sociologo, comprendere come funzionano, sottoporli ad auditing. Ma qui non si tratta di temere derive tecno-autoritarie, si tratta di fare un esercizio di lucidità e andare oltre la semplificazione operata dall’autore francese. Si tratta cioè di capire fino a che punto siamo disposti a delegare, perché a furia di affidarci e di «lasciar fare», non siamo più in grado di cogliere l’aspetto ideologico di chi compie le scelte per il nostro bene.
Se invece volessimo capirci qualcosa di più di come funzionano, sarebbe utile andare a studiarsi i materiali pubblicati da Share Lab del professore Joler Vladan (https://labs.rs/en/).
Va detto, l’argomento è tutt’altro che semplice. Parlare di algoritmi è impossibile senza parlare dell’ambiente tecnologico in cui sono chiamati a lavorare. La complessità tecnica del contesto, profondamente manipolata in senso commerciale, non è comprensibile a tutti. Ed è proprio su questa difficile comprensione che le algocrazie costruiscono la loro fortuna. L’utente intorpidito dalla procedura routinaria difficilmente si domanderà cosa c’è dietro.

Ad ogni principio tecnico corrisponde però un principio etico-poltico poiché entrambi si co-implicano vicendevolmente, e in questo caso tale principio ha a che vedere con la delega e la performance. Non basta dunque capire gli algoritmi, saperli valutare, come ci viene suggerito, ma occorre comprendere anche il contesto in cui si muovono e come questo contesto ci implica e ci modifica.
Riprendendo il titolo del saggio di Cardon, gli algoritmi sognano i desideri dei loro creatori, un mondo facile e immediato alla portata di click (o tap), un ambiente per tutti, ossia per singoli individui ricondotti alla dimensione unica di utenti di piattaforme commerciali sempre più pervasive. Come a dire, il nostro futuro leggero, luminoso, disintermediato, pulito, automatizzato, piacevole.
Oggi si scorgono i prodromi di un domani nel quale il potenziale artistico, intellettuale, culturale si potrà dispiegarsi senza vincoli apparenti, facendo leva esclusivamente sulla propria capacità e valore. In altre parole, questo «mercato senza attriti» – frictionless market – significa stare sempre nella performance, diventare imprenditori di sé stessi sottoposti a mille indici di misurazione, delegare ogni tipo di interazione personale all’infrastruttura tecnologica.
Più che ai sogni, la nostra interrogazione dovrebbe allora rivolgersi alla rêverie degli algoritmi – quella dimensione in cui il sogno incontra la coscienza, condizione nella quale, come ci dice Bachelard, «Il sognatore di rêverie è presente alla sua rêverie» – affinché ognuno sia finalmente responsabile delle proprie scelte.

(L’autore dell’articolo fa parte del Gruppo di ricerca Ippolita)