Aumenta la pressione sul governo conservatore guidato da Theresa May, e non solo in riferimento alla saga Brexit. L’elezione di Donald Trump rappresenta un’incognita che va ben oltre la delicata transizione del Regno Unito fuori dell’Ue, per la quale finora May, nonostante plurimi sforzi per dissimularlo, non sembra aver ancora un piano definito.

Proprio di questo l’ha accusata ieri Jeremy Corbyn durante il question time parlamentare del mercoledì, in una performance efficace come forse mai gli era riuscito finora.

Il sospetto che Downing Street brancoli sulla strada lungo la quale dovrebbe correre non si insinua solo pensando alla nomina di uno come Boris Johnson agli esteri, un ministro regolarmente sbeffeggiato a Bruxelles. Il Times di martedì ha rivelato il memorandum interno di un’agenzia privata di consulenza, secondo il quale il governo sarebbe diviso su tutto, con il triumvirato composto dal succitato Johnson, Liam Fox e David Davis da una parte e il più moderato ex-remainer ministro delle finanze, il cancelliere Hammond, dall’altra. Se tutto questo fosse confermato, la scadenza per l’attivazione dell’Articolo 50, fissata da May a fine marzo, sarà assai difficilmente rispettata, soprattutto quando lei stessa insiste per autorizzare personalmente ogni decisione.

A tutto questo si aggiunge il presidente eletto Donald Trump. L’evento politico forse più traumatico dal secondo dopoguerra, dal potenziale sufficiente a mandare in frantumi una serie di equilibri e di rapporti cementati dalla guerra fredda, in particolare Nato e atlantismo come cardini finora indiscussi della declinante egemonia globale degli Stati Uniti. Questo vitale assetto strategico degli interessi dei due paesi dovrà urgentemente trovare una ridefinizione. Con la Gran Bretagna fuori dall’Ue, Washington ha perduto il proprio procuratore a Bruxelles. Ma non pare che la cosa preoccupi Trump, che subito dopo la vittoria ha invitato Nigel Farage e i suoi scherani nel proprio grattacielo d’oro massiccio prima di qualunque altro uomo politico britannico.

La foto che li ritrae insieme ha fatto il giro del mondo: un Farage ghignante e spiritato accanto al proprio idolo col pollice all’insù. Sia a leggerla come un incubo da social media, sia come specchio del precipizio nel quale è rovinata la democrazia liberale non solo angloamericana, per May (che si è dovuta accontentare del solito colloquio protocollare dopo una lunga anticamera telefonica), significa un’umiliazione non da poco.

Farage si è immediatamente offerto di fare da tramite tra Londra e Trump per esplorare nuove sinergie, interessi e mercati da colonizzare insieme, offerta che un portavoce di May si è affrettato a rimandare al mittente non senza un certo fastidio. Non è un mistero che i tories siano in apprensione su come ingraziarsi il miliardario presidente. Gli ottimisti vorrebbero un’intesa alla Thatcher-Reagan in chiave anti-Putin, verso il quale Trump ha dimostrato un’insana propensione. E benché i temperamenti dei due non potrebbero essere più contrastanti, non è del tutto improbabile che la compassata rigidità di May e la boria da cow-boy di Trump trovino un termine medio nel segno dell’ancestrale consanguineità economico culturale.

Unica finora a emergere con tersa chiarezza è invece l’ambizione personale di Nigel, che post-Brexit aveva mollato le redini dell’Ukip. La sconfitta personale alle politiche del 2015 finiva il suo settimo tentativo di occupare uno scranno di Westminster. Trump alla Casa Bianca è per lui meglio di qualsiasi vittoria elettorale. Ecco perché girano voci che sia pronto a entrare nelle fila dei conservatori. Per lui ci sarebbe perfino un titolo di pari. Lord Farage.