“Se le accuse saranno provate, il Pd ne trarrà le conseguenze. Come è stato fatto nel caso Genovese”. Le parole di Maria Elena Boschi a Porta a Porta sono sufficientemente chiare. Ma sono anche l’ennesimo acuto in una polifonia di voci, tutte interne al Pd, di fronte alle quali non è facile capire quale sia la chiave di lettura prevalente dopo gli arresti per il Mose. Si va dal “Giorgio Orsoni non è del Pd, non ha mai avuto la tessera dal partito”, affermato da Luca Lotti, a “il Pd non c’entra con le tangenti”, dichiarazione di Debora Serracchiani alla web tv del quotidiano La Stampa. La mancanza di una linea univoca appare come l’effetto di una difficoltà, grossa e non prevista. Un imbarazzo aggravato dal fatto che tutta la stampa internazionale ha dato notizia dell’ennesimo scandalo italiano proprio mentre Matteo Renzi esordiva al G7.

Per cercare di fare un po’ d’ordine, guardiamo prima di tutto alle parole del presidente del consiglio. “Le regole ci sono, il problema sono i ladri. E i politici che vengono indagati per corruzione, io li indagherei per alto tradimento”. A seguire un’altra serie di frasi a effetto, fra le quali spicca: “Per chi è condannato ci vuole il Daspo, a casa la gente che ruba”. Il tutto nel tentativo di contrastare la battuta di Beppe Grillo: “Noi vinciamo poi, intanto arrestano voi”.

Una riflessione più adeguata è arrivata dal guardasigilli Andrea Orlando. Nel precisare che la sua dichiarazione a caldo (“sono intristito ma non stupito”) non riguardava la tempistica dell’inchiesta, il ministro della giustizia ha approfondito il concetto: “Quelle parole si riferiscono a un fenomeno che purtroppo è stato riscontrato a più riprese nel nostro paese. Ogni volta che si trovano strade eccezionali, inevitabilmente fermenta una forma di opacità che produce corruzione. L’antidoto è cercare di seguire quanto più possibile la via ordinaria, ed evitare forme di carattere straordinario”. Infine Orlando ha insistito: “Il presidente dell’autorità contro la corruzione, Raffaele Cantone, deve essere messo al più presto nelle condizioni di fare il suo lavoro, e svolgere quell’attività che viene prima del reato”.

Le novità annunciate da Renzi in tema di appalti pubblici, che il premier vuole veder procedere speditamente per opere piccole e grandi, sono confermate dal ministro Boschi: “Il governo sta lavorando al codice degli appalti”. Nel segno di una semplificazione delle regole illustrata così dal viceministro alle infrastrutture Riccardo Nencini: “Le attuali 600 norme saranno ridotte di due terzi”. Quanto alla curiosa vicenda che sta riguardando Raffaele Cantone, la cui nomina viene definita dai 5 Stelle come “marchetta elettorale”, l’indipendente senatore dem Massimo Mucchetti butta il sasso nello stagno: “Ma Renzi e Cantone vanno d’accordo? La mia domanda ha origine dagli orientamenti in apparenza confliggenti del premier e del capo dell’anticorruzione sul contrasto alle tangenti. Per l’uno si devono colpire corrotti e corruttori ma senza fermare i cantieri, per l’altro si devono revocare gli appalti assegnati alle imprese inquisite”.

Al pertinente interrogativo di Mucchetti replica lo stesso Cantone: “Non ho mai detto che vanno revocati gli appalti. Ho detto che per il futuro la legge Severino prevede che, nei casi di corruzione, sia possibile la revoca degli appalti. Non mi sono riferito né alle vicende Mose, né tanto meno alle vicende Expo: ho fatto un discorso generale che evidentemente qualcuno ha letto solo in parte. E non c’è nessun conflitto tra me e il premier Renzi”. Per certo comunque l’esecutivo si è preso ancora tempo per dare il via libera al decreto che conferisce i poteri a Cantone. E la giornata parlamentare ha registrato anche uno slittamento del cammino del disegno di legge anticorruzione, mentre nello stesso tempo il governo annunciava un suo specifico provvedimento. “Siamo felici che all’iniziativa parlamentare si affianchi un’iniziativa del governo – ha commentato un perplesso Pietro Grasso – speriamo che l’attesa possa essere utile. Perché bisogna anche fare presto”.