L’unico ostacolo formale alle elezioni anticipate al prossimo 8 giugno, dopo l’annuncio choc di Theresa May, è stato agilmente rimosso. Com’era previsto, alla Camera dei Comuni la mozione che doveva bypassare il Fixed Term Parliamentary Act (la legge che fissava la data delle politiche al suo termine costituzionale, il 2020) ha largamente ottenuto i due terzi di cui aveva bisogno: 522 voti a favore e solo tredici contro, dei quali 325 Tories (su 330) e 174 (su 229) laburisti. I Tories hanno prevedibilmente seguito in massa la loro premier mentre tra i laburisti si sono astenuti in molti, evidenziando per l’ennesima volta (come già sul loro segretario e sulla questione Brexit) le proprie divisioni interne. I deputati scozzesi dello Scottish National Party (Snp) si sono invece tutti astenuti. È ora certo anche formalmente: fra sei settimane si torna dunque alle urne, a meno di un anno dal referendum sull’Ue e a soli due anni dalle ultime politiche in cui David Cameron vinse un’inaspettata – ma risicata – maggioranza, la stessa che May intende ora allargare approfittando del caos nelle fila dell’opposizione laburista.

Così, il dispositivo di sicurezza che fissava la convocazione di elezioni ogni cinque anni nel caso in cui un partito si trovasse in una posizione di tale vantaggio sugli avversari da volerne approfittare – ironicamente promulgata nel 2011 durante la precedente premiership Cameron – diventa carta straccia. Carta bianca, invece diventerebbe quella che il paese, ma in questo caso parliamo elettoralmente della sola Inghilterra, potrebbe dare a May, che ha dopotutto fatto un’inversione a U con stridente sgommata proprio per questo, con l’occasione cancellando dalla faccia dell’opposizione la scocciatura di un partito laburista ostaggio «dell’estremista» Corbyn.

Ed ecco la tabella di marcia di queste prossime roventi sei settimane: l’attuale parlamento, in carica da soli due anni – un’era geologica in Italia ma poco più di una mezz’ora da queste parti – sarà sciolto a mezzanotte e un minuto del tre maggio, venticinque giorni feriali prima del voto. Il giorno precedente, la premier si recherà come di prammatica dalla monarca, alla quale aveva comunicato la propria intenzione di convocare a sorpresa le elezioni solo martedì scorso. Poco prima, durante il Prime Minister’s Questions, la sua decisione di non voler partecipare ad alcun dibattito televisivo le era valsa accuse di vigliaccheria mediatica dai banchi dell’opposizione, che si è concentrata sullo stigmatizzare il suo aver rinnegato la parola data.

Emergono intanto con più nettezza i contorni della tattica del capo del governo, che aveva avvertito della sua cerchia più ristretta soltanto Philip Hammond (cancelliere dello scacchiere), Michael Fallon (difesa), David Davis (Brexit), Amber Rudd (interni), Boris Johnson (esteri), il presidente del partito e il capogruppo. Oltre naturalmente a mettere le mani avanti rispetto al probabile intorbidirsi delle acque una volta iniziata la negoziazione vera e propria con Bruxelles, May ha detto che sarebbe sbagliato per il paese trovarsi di fronte alle fasi «più difficili e sensibili» della trattativa proprio alla vigilia delle elezioni del 2020. Evitando quindi in un’unica mossa non solo il rischio di un suo indebolimento al tavolo delle trattative (dovuto al suo essere senza mandato elettorale) ma anche uno sfacelo del suo partito alle urne in caso di gestione fallimentare dei negoziati.

 

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Ma in questo altrimenti brillante colpo di mano incombe l’incognita scozzese: benché non possano davvero fare meglio che nelle recenti tornate elettorali sia a Holyrood che a Westminster, un’ ulteriore slavina del Snp frantumerebbe ogni resistenza al prossimo referendum sull’indipendenza di Edinburgo da Londra.