Non bastava la tempesta dell’inchiesta Consip e la spada di Damocle sulla testa di «babbo Renzi».

Non bastava il caos del tesseramento, la messa in mora delle primarie di Miano (Napoli nord) e la consegna delle tessere in procura.

Nel suo giorno più lungo, più lungo anche della lunghissima notte della sconfitta referendaria, a Matteo Renzi piomba in testa l’ultima – lui spera – tegola: la condanna dell’ex alleato Denis Verdini a 9 anni per bancarotta e truffa ai danni dello stato.

La situazione è talmente critica che spunta l’ipotesi di rinviare il congresso previsto il 30 aprile, per consentire al partito di prendere fiato. Ma in realtà è una mossa che Renzi capisce essere una trappola per lui.

L’ex premier non parla della tempesta che lo investe. Non parla neanche Michele Emiliano, il duellante che si trova nell’incredibile posizione di avversario di Renzi, magistrato ma anche testimone dell’inchiesta a carico di «babbo Renzi». Nella giornata di ieri il presidente della Puglia ha cancellato le interviste programmate. Si è pentito di aver sventolato gli sms scambiati con il ministro Lotti davanti al cronista del Fatto, facendo esplodere un inedito cortocircuito fra contesa politica e colpi giudiziari che avvelena le primarie.

[do action=”quote” autore=”Pippo Civati”]«Più che primarie sembra Un giorno in pretura»[/do]

Teme che alla fine anche lui la pagherà nei gazebo. «Più che primarie sembra Un giorno in pretura», ironizza Pippo Civati.

ORLANDO SI SFILA. Dal sanguinoso duello rusticano fra i due si sfila il terzo uomo delle primarie, il ministro Andrea Orlando. Da Guardasigilli si cuce la bocca su tutta questa vicenda, compresa la richiesta di dimissioni dalla magistratura all’indirizzo di Emiliano che improvvisamente piovono dalla contraerea renziana : «Non voglio fare la campagna sulle vicende giudiziarie o sul profilo disciplinare di Emiliano ma sui progetti per questo paese», spiega a chi glielo chiede. Deve evitare di entrare in conflitto con il suo ruolo di ministro di Giustizia. Ma ha anche capito che dallo scontro fra i suoi due competitor in queste ore lui ha solo da guadagnare.

FIN QUI SI SONO SCHIERATI con lui alcuni big: Zingaretti, Cuperlo (lo ufficializzerà sabato a Roma all’assemblea della sua Areadem), Bettini, Violante, Finocchiaro, Damiano. Chiamparino è dato in avvicinamento. A favore della sua guida «determinata e mite» si sono schierati 25 senatori Pd fra cui Luigi Manconi, Massimo Mucchetti, Vannino Chiti, Claudio Martini. E Ugo Sposetti, che lo considera l’erede spirituale del patrimonio politico degli ex Pci. Ieri alla camera i suoi parlavano di un centinaio di parlamentari. Non solo compagni d’arme, ex giovani turchi vicini da sempre come Daniele Marantelli e Misiani, ma anche il cuperliano De Maria, l’ex segretario del Pd romano Marco Miccoli, il più ostile alla stagione commissariale romana di Matteo Orfini. «Quella di Andrea è una leadership inclusiva», assicurano. Ci sarebbero anche renziani delle seconde file dell’ex invincibile armata del segretario.

Ex bersaniani che non hanno seguito la ditta fuori dal Pd. C’è il sindaco di Bologna Merola. Ma della partita non sono solo ex Ds. Orlando ieri ha affidato il coordinamento della sua campagna al veltroniano Andrea Martella. Ma vuole combattere quell’etichetta di «candidato della sinistra» che gli vogliono appiccicare i renziani per relegarlo in una ridotta della competizione congressuale.

Orlando sa che proprio in queste ore la sua corsa può fare un salto di qualità, quello a cui del resto si è preparato da tempo. «Ho avuto telefonate di incoraggiamento da dirigenti Dc di lunghissimo corso. Io sono il candidato di tutti quelli che in questo momento sono preoccupati per il destino del Pd». Ed è su questa preoccupazione che intercetta l’appoggio di un’area smantellata nel drammatico febbraio 2014: quella che stava intorno all’ex premier Enrico Letta. La maggior parte delle persone che in questi anni hanno fatto politica con lui oggi «sostengono convintamente Orlando» e nelle prossime ore lo annunceranno pubblicamente.

L’EX PREMIER NON SI SCHIERA. Fra loro c’è Marco Meloni, direttore della scuola di politica di Letta, l’europarlamentare Alessia Mosca, l’ex ministra Chiara Carrozza, il genovese Lorenzo Basso, il senatore Paolo Guerrieri e anche il renziano ex sottosegretario Dell’Aringa. Nel nome dell’Ulivo, e certo non alla sinistra del candidato segretario. Letta al congresso non si schiererà. Da settembre dell’anno della sua defenestrazione, per mano di Renzi e della direzione del suo partito, dirige la Scuola di affari internazionali dell’Istituto di studi politici di Parigi. Ma il suo antico legame con Pier Luigi Bersani non si è mai interrotto. Alla vigilia della scissione ha scritto un lungo post su facebook: «Non può finire così», diceva, «Oggi sento la stessa angoscia collettiva di tanti che si sentono traditi e sperano che non sia vero». È rimasto nel Pd, ma non è mai stato «equidistante» fra l’area del dissenso e il segretario Renzi, a cui attrubuisce la principale responsabilità delle macerie dell’attuale Pd. Chi ci ha parlato lo ha trovato in uno stato di «preoccupazione a livelli altissimi».

Non entrerà nelle beghe della competizione. Ma da Parigi fa un ultimo atto di fede per «la ricomposizione delle divisioni», anche in funzione delle sfide europee e internazionali per le quali ha sempre detto che il 2017, con le elezioni in Francia e in Germania, sarebbe stato «l’anno della verità», quello in cui «l’Europa, in crisi più che mai, avrebbe bisogno dell’impegno creativo degli ulivisti e democratici italiani».