Nascondere maldestramente la polvere sotto il tappeto non serve per fare pulizia. Semmai fa aumentare il cattivo odore dell’ambiente. Dire che il caso è chiuso, sostenere che non è successo niente e bocciare il ricorso di Antonio Bassolino perché «è arrivato dopo le 24 ore previste», è una motivazione ridicola, nel maldestro tentativo di mettere una «toppa» al buco. Che in realtà è una voragine, un vuoto di immagine, di credibilità, di leadership, di democrazia. E come se non bastasse, nel ricorso dell’ex sindaco di Napoli (ed ex di varie cose), si parla di «controllo del voto con metodi criminali» in riferimento a quel che è successo al seggio di Scampia.

Ma Napoli non è l’unico boomerang di queste primarie del Pd. Ci sono i voti di Roma, dimezzati perché la volta precedente «aveva votato Mafia Capitale», perché «c’erano le truppe cammellate», perché «gli astenuti non sono delusi da Renzi ma da Ignazio Marino». Sta di fatto che i voti di domenica sono stati probabilmente anche gonfiati, con schede nulle o bianche utili a far salire un po’ la percentuale dei partecipanti, nel tentativo (vano) di mascherare la scarsa affluenza, anzi il mastodontico flop.

Nel generale imbarazzo del partito, il vincitore delle primarie Giachetti, prima fa il ventriloquo del «commissario» Orfini e dice che «non cambia nulla», poi però aggiunge che vorrebbe sapere chi è quel «genio» che ha costruito questa ennesima figuraccia.

E se Roma e a Napoli piangono, Milano non ride, perché la candidata Francesca Balzani, sconfitta alle primarie, adesso si è rende conto che non sarà facile far pesare il suo 34 per cento nella squadra e nel programma del candidato Sala. (Però se Gherardo Colombo alla fine decidesse di accettare la sfida elettorale si può ragionevolmente pensare che non pochi elettori delle primarie milanesi potrebbero scegliere di votare per l’ex magistrato di Mani Pulite, oggi presidente della casa editrice Garzanti.

Si fa largo l’idea, nel mondo politico e tra gli osservatori, di regolamentare le primarie con una legge che ne stabilisca i criteri, in nome della trasparenza. Forse si andrà in questa direzione, ma intanto un macigno si è abbattuto sull’immagine del partito, che appare sempre più disorientato, smarrito, diviso. Anche perché sarà alquanto difficile costruire una campagna elettorale «unitaria» di Cuperlo con Orfini, della Serracchiani con Speranza, una sorta di «tutti insieme appassionatamente» sotto la bandiera dello stesso partito.

In realtà il vessillo è pieno di strappi, testimoniati anche dai borbottii dei Cuperlo e dei Bersani contro la maldestra conduzione dei velenosi e imbarazzanti postumi delle primarie napoletane.
L’opposizione interna tenta di alzare la voce chiedendo l’intervento della Commissione nazionale di garanzia perché si rende conto che nascondendo la polvere gli elettori di sinistra che volteranno le spalle al Pd potrebbero diventare un fiume in piena. Ma probabilmente è troppo tardi per mettere un argine alla deriva. Anche per responsabilità degli stessi Bersani e Cuperlo che si sono condannati da soli ad una inconcludente testimonianza, assistendo quasi silenti all’emorragia – più di immagine che numerica – con le fuoriuscite di Cofferati, Fassina, Civati, del gruppo di Sinistra Italiana (e chissà che farà Bassolino).

Questa situazione che, eufemisticamente, possiamo definire di disagio, deve essere motivo di stimolo a sinistra con una netta e chiara assunzione di responsabilità per non perdere il rapporto con gli elettori. Mai come ora la formazione di liste a sinistra del Pd, da Torino a Roma, Milano e Bologna potrebbe – anzi dovrebbe – essere l’occasione per dimostrare serietà, responsabilità, unità. E, soprattutto, per trovare leader capaci di parlare a tutti quelli che vogliono un vero cambiamento di passo e a quelli disorientati e delusi dal partito di Renzi. Ma non sarà facile, perché nessuno ha la bacchetta magica o è capace di far uscire un coniglio dal cilindro. E il tempo stringe.