Nell’arco di pochi giorni, un’area pianeggiante dell’Asia centrale, in Kazakistan, si ricoprì di centinaia di migliaia di carcasse di una piccola antilope dal muso oblungo, chiamata saiga.

Era maggio 2015 e un gran numero di esemplari di saiga si erano radunati nella pianura della steppa per partorire insieme i propri cuccioli, in modo tale da essere meno vulnerabili ai lupi, loro predatori.

Fino agli anni 2000, la saiga è stata braccata per le corna e la carne fino alla quasi estinzione. Nel 2001 la specie è stata inserita nella Lista Rossa dell’Unione Internazionale per la Conservazione della Natura (IUCN) come categoria a rischio critico di estinzione (critically endangered ndr).

Fino al 2015, il lavoro di conservazione di governi, scienziati e ONG stava dando i suoi frutti; il numero complessivo di saiga era passato dai circa 50.000 esemplari all’inizio degli anni 2000 ai 300.000 all’inizio del 2015.

Secondo il Centers for Disease Control and Prevention statunitense (CDC), nel maggio del 2015 ne sono morte circa 200.000, due terzi della popolazione mondiale di saiga.

L’episodio di morte di massa delle saiga ha dato luogo a numerose interpretazioni cospirative.

Cosa era stato ad ucciderne così tante e in così poco tempo? Alieni? Radiazioni? Avvelenamento?

Alla fine gli scienziati individuarono il colpevole: un microbo. Pasteurella multocida è un batterio che abita le tonsille delle saiga, per secoli questa antilope è stata un ospite ideale per il pasteurella.

Improvvisamente, però, nel 2015, il batterio ha proliferato, è emigrato nel sangue, da lì nel fegato, nei reni e poi nella milza. “Una setticemia emorragica causata da Pasteurella multocida sierotipo B innescata da condizioni ambientali”, spiega il CDC riguardo all’episodio che ha portato alla morte di massa delle saiga.

Ma cosa aveva spinto il batterio a comportarsi diversamente dal solito? Quali erano queste “condizioni ambientali”? Un caldo e un livello di umidità più alti della media e particolarmente inusuali per la regione.

Il tasso di umidità nell’estate 2015 fu il più alto registrato dal 1948. Il giornalista scientifico Ed Yong su The Atlantic ha scritto che il clima è stato “il grilletto” e Pasteurella “il proiettile”.

Ciò che è allarmante di questo episodio è che potrebbe non trattarsi di un caso isolato. Ciò che è inquietante è che un qualsiasi patogeno, presente in altri mammiferi, incluso l’essere umano, potrebbe essere innescato in maniera simile da alterazioni climatiche.

Con il termine “patogeno” si intende una vasta gamma di agenti che possono causare malattie, tra cui i virus, i batteri, i germi parassitari e i funghi.

L’impatto del cambiamento climatico sugli agenti patogeni può essere diretto, influenzandone la sopravvivenza, la riproduzione e il ciclo di vita, o indiretto, influenzandone l’habitat.

Di conseguenza, non solo la quantità, ma anche la distribuzione geografiche e stagionale degli agenti patogeni può cambiare.

Il termine “ospite”, invece, si riferisce a un animale o all’essere umano all’interno del quale risiedono gli agenti patogeni causa della malattia. Un “vettore”, invece, è un organismo, come una zecca o una zanzara, che può trasmettere un agente patogeno da un ospite all’altro. La geografia e il cambiamento nelle popolazioni dei vettori sono strettamente correlati ai cambiamenti climatici.

Questo significa che il cambiamento climatico può causare alterazioni nella portata e nell’intensità delle malattie infettive attraverso i suoi impatti sugli agenti patogeni, sugli ospiti e sui vettori.

Il cambiamento climatico sta anche riportando in vita antichi agenti patogeni. In un articolo su Duegradi, un magazine sul cambiamento climatico, ho raccontato un episodio risalente al 2016, quando in un angolo remoto della tundra siberiana, sulla penisola di Yamal nel Circolo Polare Artico, morì un bambino e almeno venti persone furono ricoverate dopo essere state infettate dall’antrace, un’infezione acuta causata dal batterio Bacillus anthracis.

Un’ondata di calore durante l’estate aveva scongelato il permafrost e, insieme ad esso, una carcassa di renna infettata dall’antrace oltre 75 anni prima.

Più di duemila renne che pascolavano nelle vicinanze sono state contagiate dalla malattia e sono morte.

Generalmente, l’antrace si manifesta come malattia endemica in animali erbivori selvatici o domestici, ma può anche svilupparsi nell’uomo per esposizione ad animali infetti, tessuti di animali infetti, inalazione di spore del batterio o ingestione di cibo e acqua contaminata – proprio com’è accaduto nel 2016.

L’epidemia di antrace a Yamal (Siberia), foto Ap

Nel caso del SARS-CoV-2 che causa la Covid-19 si è parlato di come la distruzione sconsiderata di terre da parte dell’uomo, la deforestazione e una conversione aggressiva di terre naturali a fini economici abbiano permesso una maggiore prossimità dell’uomo agli ecosistemi naturali.

L’interferenza dell’uomo nella natura ha, così, permesso ai virus di passare dall’animale all’uomo. Ma non è solo l’effetto spillover a doverci preoccupare. 

Il cambiamento climatico sta esacerbando la diffusione delle malattie infettive, sia di tipo batterico che di tipo virale. Ignorare la connessione tra il cambiamento climatico e le epidemie è un grave errore.

Il riscaldamento globale sta alterando gli equilibri degli ecosistemi. Il clima caldo e instabile, le alte temperature e le precipitazioni irregolari rendono molte regioni nel mondo particolarmente vulnerabili al contagio.

Molte delle malattie infettive più comuni, e in particolare quelle trasmesse dagli insetti, sono molto sensibili alle variazioni climatiche. Sappiamo, per esempio, che le infezioni che si trasmettono attraverso l’acqua, il cibo o vettori come zanzare e zecche sono molto sensibili alle condizioni climatiche e meteorologiche. In molte regioni del mondo, condizioni estreme di caldo e umido rendono più facile la trasmissione della malaria, la dengue, la chikungunya, la febbre gialla, il virus Zika, il virus del Nilo occidentale e la malattia di Lyme.

Arthur Wyns, esperto di cambiamento climatico per l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) scrive su Scientific American che il clima sta aggravando gli impatti negativi della malaria sulla salute ampliando la portata della zanzara Anofele, il vettore che la diffonde, e allungandone la stagione di riproduzione, esponendo così un maggior numero di persone a rischio di trasmissione.

Anche la malattia di Lyme, diffusa dalle zecche, sta aumentando la sua portata e la stagionalità in molte parti del Nord America e dell’Europa, mentre il colera e la criptosporidiosi sono in aumento in condizioni di siccità o inondazioni più frequenti.

Gli eventi climatici estremi, inoltre, possono avere un effetto significativo sulla distribuzione delle malattie infettive.

Analisi riportate dall’OMS hanno dimostrato che il rischio di epidemia di malaria aumenta di circa cinque volte dopo El Niño.

Gli eventi meteorologici estremi possono produrre altri effetti a cascata, sostiene l’Earth Institute della Columbia University, che, a loro volta, possono influenzare la diffusione di una malattia infettiva.

Il calore e la siccità possono fare da combustibile per gli incendi boschivi che frammentano le foreste e avvicinano la fauna selvatica all’uomo.

La siccità e le inondazioni influenzano la resa dei raccolti, potenzialmente causando un alto tasso di malnutrizione, che rende le persone più vulnerabili alle malattie e le costringe a trovare altre fonti di cibo.

Le inondazioni possono fornire terreno fertile per gli insetti e causare contaminazione dell’acqua, portando alla diffusione di malattie diarroiche come il colera.

Inoltre, le condizioni meteorologiche estreme possono alterare i delicati rapporti tra predatori e prede, e quindi anche quelli con parassiti portatori di agenti patogeni come topi e zanzare.

Alcuni scienziati ritengono che il cambiamento climatico abbia avuto un ruolo fondamentale anche nell’epidemia di Ebola.

Non è un caso, infatti, che stagioni secche seguite da forti piogge che favoriscono la produzione di frutta in abbondanza abbiano coinciso con la diffusione dell’epidemia nei paesi africani più colpiti. Quando la frutta è abbondante, le scimmie e i pipistrelli, che secondo gli scienziati sono i portatori del virus dell’Ebola, si riuniscono per mangiare, offrendo al virus l’opportunità di saltare da una specie all’altra.

Gli esseri umani, poi, possono contrarre la malattia mangiando o maneggiando un animale infetto, come una scimmia. Secondo Kris Murray, ricercatore della EcoHealth Alliance, ong di ricerca sulle malattie infettive emergenti, il cambiamento climatico gioca un ruolo cruciale nell’aumento del rischio di Ebola.

Quasi il 50 per cento dei focolai di Ebola sono stati direttamente collegati al consumo e alla manipolazione della carne di animali selvatici. Il punto, insomma, è che un clima alterato ha conseguenze fondamentali per la salute degli esseri umani.

Ma le malattie infettive non sono l’unica conseguenza.

Tra i gravi impatti dell’emergenza climatica che ogni anno causano migliaia di morti ci sono l’inquinamento, le alluvioni, gli incendi, gli eventi meteorologici estremi e la sicurezza alimentare. Altre conseguenze includono ripercussioni sulle allergie e sulla salute mentale.

Il cambiamento climatico e la COVID-19 sono entrambe minacce attuali per la salute pubblica, sebbene si stiano manifestando con tempi diversi. Ed entrambe richiedono un’azione tempestiva che fornisca una rete di sostegno e protezione a lungo termine per tutti, soprattutto per le comunità più vulnerabili della società.