Più si avvicinava il referendum nel Regno Unito e più aumentavano le rassicurazioni del governo, il quale minimizzava le possibili ricadute del Brexit per l’Italia e in particolare per il suo sistema bancario. Il ministro Padoan, in particolare, sembrava esorcizzare questo pericolo garantendo che gli istituti di credito erano solidi, nessun «problema italiano specifico dal punto di vista della Brexit» dichiarava. A distanza di pochi giorni dal risultato referendario imperversano preoccupazioni e possibili soluzioni. Nel frattempo il sistema creditizio italiano è andato immediatamente in affanno, crollando i primi due giorni e faticando a recuperare anche dopo un primo rimbalzo in Borsa.

In realtà esiste un problema specifico per le banche italiane, ovviamente dentro un problema più generale per il sistema di credito europeo. La Banca dei Regolamenti Internazionali nella sua relazione annuale già prima del referendum sosteneva come l’Europa stesse sottovalutando il problema delle proprie banche. L’assise dei banchieri centrali sostiene, infatti, che la ripresa sarà difficile a causa della mole di debiti privati accumulata sia dai paesi avanzati sia da quelli emergenti.

Tornano così al centro problemi mai risolti dal 2008 in avanti. In un rimpallo di accuse all’Italia si rinfacciano i 350 miliardi di crediti deteriorati e l’Italia contrattacca mettendo l’accento sulla montagna di derivati che sarebbero nella pancia delle banche tedesche e francesi, di cui per altro è difficile delineare i contorni precisi a causa dell’opacità di questo settore. Il caso Deutsche Bank però risulta indicativo: ha emesso 75 mila miliardi di derivati, pari a 20 volte il Pil della Germania, di cui 32 attualmente messi a bilancio e considerati ad alto rischio. Per non dire della costante contrazione dei valori di Borsa che attanagliano gli istituti di tutta Europa, compresi quelli svizzeri, da un anno a questa parte.

Gli effetti dei tassi negativi peggiorano ulteriormente il quadro. Quello che, però, fa la differenza nel caso italiano è la percezione del rischio paese. La Brexit rischia di affossare un panorama continentale che già era a tinte fosche, facendo riemergere debolezze strutturali che per un paese periferico come l’Italia significano un groviglio di zero crescita, elevato debito pubblico, credito insufficiente, e così via. In questa bufera di ritorno causata dalla Brexit emerge un problema specifico italiano, tanto insidioso da far avanzare al governo proposte su come derogare al bail in recentemente approvato per fornire aiuti di stato al sistema del credito.

Per ora sappiamo che è stato approvato uno scudo da 150 miliardi per sostenere la liquidità, ma come per il fondo Atlante il rischio è che il provvedimento non sia sufficiente. Un esperto come Marco Onado parla espressamente di «fallimento di mercato» e di «pura utopia pensare a strade astrattamente di mercato».

I controlli della Bce diventerebbero un ulteriore fattore destabilizzante senza un «investitore di ultima istanza», cioè lo Stato. In piena crisi le banche europee sono state aiutate dai rispettivi paesi, ora che è stato approvata la norma secondo cui l’aiuto di stato può avvenire solo dopo aver coinvolto correntisti e investitori il governo si pone l’urgenza di un sostegno pubblico al settore. Per altro con l’avversione delle banche a tal progetto.

Sono anni che si pone un problema del ruolo della sfera pubblica in questo delicato segmento finanziario, il rischio è ora che dopo averne negato per anni la necessità si finisca per affrontarlo nel peggiore dei modi, cioè con espedienti che aiutano le banche maggiormente inguaiate, senza mettere mano né alla proprietà né alle politiche di fondo con cui gestire le stesse e facendo pagare il conto alla collettività. A un problema reale, il fallimento di mercato, risposte errate per salvare sempre il mercato.