Educare all’identità come libertà e non come destino è il primo obiettivo che il dilagare dei fenomeni di femminicidio, omofobia e intolleranza impone alle istituzioni, sapendo che per incidere sul terreno dei pari diritti e delle pari opportunità bisogna intervenire fin dalla primissima infanzia, quando bambini/e vengono, o meno, messi in condizione di fare le medesime esperienze, sperimentare e acquisire le stesse abilità, imparare a esprimere, condividere e gestire le emozioni, formarsi attraverso le prime relazioni significative con gli adulti e tra coetanee/i. È un obiettivo che dev’essere del Parlamento, con l’approvazione di una legge per l’educazione sentimentale, la valorizzazione delle differenze nelle scuole e l’educazione sessuale – il nostro Paese è l’unico dell’Europa occidentale a non avere ancora implementato alcun programma del genere negli istituti scolastici e la parte del decreto sulla Buona Scuola riguardante le discriminazioni di genere è insufficiente nei contenuti e soprattutto rischia di rimanere lettera morta per subalternità alla propaganda «anti-gender». Ma è un obiettivo che dev’essere anche degli enti locali, nei casi migliori discontinui nell’introduzione di programmi ad hoc, nei peggiori impegnati in anticostituzionali cacce alle streghe, come il telefono anti-gender della Regione Lombardia.

Se guardiamo al mondo adolescenziale e pre-adolescenziale entrando negli angoli in penombra delle scuole, dagli ultimi anni delle elementari, troviamo fenomeni assai sintomatici di come i teenager oggi vivono la sessualità: il bullismo, l’omofobia, il sexting e le tante mode del momento che impongono l’oggettificazione del corpo femminile infantile. Cartina di tornasole di quanto accade quotidianamente sono i dati sulle malattie sessualmente trasmissibili. in crescita nella popolazione più giovane, e sul ricorso delle giovanissime alla contraccezione d’emergenza. In questo scenario più che mai è indispensabile educare le nuove generazioni a rispettare l’uguaglianza della pluralità e sostenere gli insegnanti nell’educare alla libertà, che, come prima cosa, significa trasmettere che nulla è neutro, che ogni sguardo, ogni parola, ogni decisione porta con sé il segno della differenza. Poi, nelle relazioni del gruppo della classe, luogo privilegiato in cui discriminazioni e stereotipi sessisti e culturali occorrono, educare alle differenze significa promuovere l’accettazione di tutti/e e sostenere i bambini/e e i ragazzi/e nel compito difficilissimo di diventare indipendenti. L’agire educativo si manifesta proprio nel doppio movimento delicatissimo dell’accompagnare e del lasciare andare per sperimentare autonomia e deve suggerire ai ragazzi/e: «sei legittimato a sentire qualsiasi sentimento, puoi essere quello che vuoi e andrà bene, non sei costretto/a a essere quello che ti dicono che devi essere». Guardare gli altri/e con altre lenti, dare un nome ai sentimenti, decostruire stereotipi e pregiudizi, riflettere su relazioni e, sopportare le fatiche dell’accettazione, sentire la libertà di poter fare qualsiasi domanda, lavorare sul corpo attraverso la facilitazione del movimento e del gioco di finzione. Queste sono le attività e le conquiste che hanno a che fare con l’educazione alle differenze nelle scuole. O, a seconda dei punti di vista, le grandi paure che l’educazione alla libertà provoca in chi ci vorrebbe identicamente normati e omologati, schiavi della tradizionale divisione dei sessi e dei ruoli familiari.