L’attuale percezione che la critica letteraria – in quanto pratica intellettuale e campo disciplinare legittimati da un fruizione diffusa – si trovi a rischio di estinzione è certamente forte e giustificata. È un rischio sottolineato da numerosi allarmi risuonati per la prima volta tra le due guerre mondiali, dopo il prolungato silenzio dei decenni che hanno visto il tentativo – e l’illusione – di costruire una scienza «dura» della letteratura. A partire dagli anni Novanta del secolo scorso, sono tornati a farsi sentire, fino a diventare oggi assai frequenti e insistenti. «Si è fatto a meno per molto tempo della critica. Se ne può fare a meno ancora. Una parte d’Europa cerca di farne a meno con violenza e superbia», scriveva Albert Thibaudet nella sua Fisiologia della critica del 1929. Il pericolo che paventava è divenuto negli ultimi anni estremamente concreto, e ha finito col riguardare non più una parte, ma la totalità del continente (la stessa che a partire dal 1999 si è riconosciuta nel cosiddetto «processo di Bologna», istitutivo della European Higher Education Area).

Davanti al rischio della fine o della marginalizzazione della critica, Thibaudet provò il bisogno di interrogarne la gloriosa origine settecentesca e le funzioni basilari, individuando tre orientamenti fondamentali, che chiamò «critica dei maestri», «critica professionale» e «critica «spontanea». Se la prima, notava, è la critica praticata dagli stessi scrittori quando, ragionando sulla propria arte, formulano idee che espongono, chiariscono, giustificano le loro opzioni, proponendo in tal modo una prospettiva estetico-letteraria di ampio respiro, la «critica professionale» è invece quella di coloro il cui mestiere è leggere le opere traendone un sapere, sulla cui base poterle ordinare.
È dunque la critica degli specialisti universitari, realizzata da professori che si rivolgono alla totalità della storia della letteratura per inventariare e spiegare, interessandosi anzitutto a ciò che è classico e rivolgendosi al nuovo solo nella misura può divenirlo. La «critica spontanea», infine, è quella che si occupa specialmente del presente, delle opere attuali, e che compie tra esse una scelta in base all’emozione immediata, esprimendo così il gusto del giorno e proponendo – anzitutto nell’articolo giornalistico o nel saggio breve – una indicazione su ciò che vale la pena di essere letto.

Ci si può chiedere cosa ne sia oggi, al crepuscolo dell’epoca della carta, di questi tre orientamenti o modi della critica (che secondo Thibaudet costituiscono altrettante «tendenze viventi», talvolta intrecciate, piuttosto che meri compartimenti). Se sarebbe ancora possibile citare non pochi scrittori contemporanei capaci di elaborare testi critico-teorici che, grazie al loro nome, riescono bene o male a trovare accoglienza da parte dei cartelli editoriali e riscontro presso gli appassionati, le cose stanno diversamente tanto per la critica universitaria, i cui protagonisti faticano ormai a reperire spazi di pubblicazione indipendenti e non prezzolati, quanto per la critica «spontanea», riguardata da una robusta preminenza del web, dove però la necessità strutturale di un aggiornamento continuo fa sì che ogni intervento – commento o espressione di gusto che sia – venga subito reso obsoleto dagli interventi successivi; e poiché assai di rado si produce una reale discussione sulle ragioni dell’apprezzamento delle opere, sovente tutto si riduce a mera reazione, più che a interpretazione.

Le strategie di mercato adottate in Europa dalle nuove concentrazioni editoriali si sono sempre più indirizzate alla promozione di una letteratura di intrattenimento, caratterizzata da tecniche di scrittura relativamente elementari e da un registro medio o neutro, rispetto ai quali la selezione, la mediazione, l’educazione del gusto promosse dall’analisi storico-critica risultano in definitiva fuori luogo, perché non proficuamente attivabili e prive di un vero significato sociale.

A fronte di una simile situazione, valida per i testi contemporanei, ma evidentemente densa di conseguenze anche per la ricezione rinnovata di quelli del passato, occorre immaginare nuovi modi, stili, luoghi critici che – come ha suggerito Jean Starobinski, acuto lettore di Thibaudet in La relation critique – si mostrino capaci di una riflessione ampia e libera su ciò che, manifestandosi nei testi e nei modi della loro produzione, rinvia al tutto della vita e della società, e alla peculiarità delle strategie attuali della loro organizzazione.