Perfino il Senato ieri ha interrotto le sue dilanianti discussioni per celebrare il trentesimo anniversario della morte di Eduardo De Filippo, che del resto di quel ramo del parlamento era stato per qualche anno membro «a vita». E la stessa Rai (che è stata capace di mandare perse le registrazioni del primo ciclo di commedie eduardiane degli anni ’60) celebra in grande la ricorrenza su Rai5, e perfino su Raiuno, dove domani pomeriggio (al posto della Domenica in di Giletti…) andrà in onda dal teatro San Ferdinando la diretta delle sconvolgenti Voci di dentro realizzato da Toni Servillo (regista e protagonista col fratello Peppe, e la regia televisiva curata da Paolo Sorrentino). Servillo non aveva nascosto la sua emozione, al momento delle prove dello spettacolo in quello stesso teatro che Eduardo aveva fatto restaurare come sua sede napoletana: «Questo era il luogo dove venivo da giovane con mio padre, e con il resto della famiglia, a vedere recitare il grande Eduardo. Questa era la sua casa, e per noi il suo tempio. Qui ho conosciuto il suo teatro, e il teatro come linguaggio».
La diretta di domani sancisce, in qualche modo, una sorta di passaggio di testimone da un attore/regista ad un altro. Perché ancor più di quando fu scritta, la commedia, all’apparenza divertente e «sgangherata», persa dietro alle stranezze del protagonista che confonde la veglia con quanto sogna la notte, fino al punto di accusare i vicini di casa di un delitto che si è immaginato nel sonno, risulta sempre più il paradigma di uno sbandamento, di un distacco individuale da una realtà che troppo pesa e non apre prospettive.
Quello che era nel 1948 lo smarrimento del dopoguerra, oggi rispecchia una situazione generale di crisi e incertezze, e di caduta di ogni fiducia di superarle: caduta di sicurezze e valori e possibilità, che incidono sulle difficoltà di vita quotidiana. La commedia fu scritta nel 1948, molto in fretta (17 ore dice la leggenda, per sostituire un altro titolo in scena a Milano, sospeso per una malattia improvvisa di Titina De Filippo). Ma rispetto a Napoli milionaria, che si chiudeva con lo speranzoso Ha da passà ’a nuttata, qui la crisi è già precipitata, e la palude del dopoguerra aveva allontanato dalla realtà speranze e illusioni di «ripresa».
Giusto trent’anni fa Napoli non è più milionaria titolava su tutta la prima pagina il manifesto (come spesso avveniva, su ottimo suggerimento di Valentino Parlato) per dare la drammaticità della notizia della morte di Eduardo. Oggi sentiamo e sappiamo che non solo Napoli ha perso molte speranza, ma l’incredulità e il disorientamento (e la sfiducia, a cominciare da quella nella politica) sono molto diffusi, in un paese dove moltissimi passano le soglie della povertà. Senza capire se questo è frutto di un brutto sogno o della macchina che ci governa. Incubi e realtà continuano a mescolarsi.
Del resto più passano gli anni, più si sente la mancanza e insieme la «preveggenza» di De Filippo, che sempre più assume il ruolo di uno dei padri fondatori di questo paese e della sua cultura. Il suo teatro poteva avere un’apparenza comica e allegra, per quasi tutta la prima metà del secolo scorso. Dopo la guerra lui stesso aveva rivendicato la necessità di un cambio di registro, subito all’indomani dalla liberazione di Napoli dai nazifascisti: «Finita la Cantata dei giorni pari, comincia La cantata dei giorni dispari. I giorni pari erano quelli che noi credevamo sereni. Li credevamo, ma era un’illusione. Ora cominciano i giorni dispari». E ha continuato a fare teatro da artigiano, scrivendo grandi testi di sicuro impatto popolare; elaborando un modello di recitazione tutto «in sottrazione» che ha fatto scuola per gli attori importanti di oggi, da Carlo Cecchi alle signore della scena cresciute con lui, da Pupella Maggio a Regina Bianchi a Valeria Moriconi; arricchendo la lingua comune di un paese che usa ormai i suoi titoli e le citazioni delle sue commedie come frasi idiomatiche; riuscendo attraverso la tv (con i famosi due cicli di registrazione dei suoi spettacoli) a dare perfino l’indicazione di una lettura e di una morale dei tempi che attraversiamo. Compresa la crudeltà che spesso emerge dai suoi intrecci: tra tante immagini rassicuranti, in palcoscenico, sul piccolo e sul grande schermo, non si può dimenticare il prete cattivissimo di Campane a martello, con cui lui, in abito talare, rintronava i «cattivi» comportamenti dei paesani d’Ischia. Il problema vero, per noi che continuiamo ad appassionarci alle sue storie, è che purtroppo i «giorni dispari» continuano. E sono ormai degli inespugnabili numeri primi.