L’ultima regia di Luca De Filippo, poco più di un anno fa, è stata predisposta per Non ti pago, celeberrimo testo di suo padre Eduardo, che Luca ha portato a termine poche settimane prima che una malattia crudele lo uccidesse. Quello spettacolo, che la sua compagnia ha voluto subito riprendere, è partito per il suo secondo anno di tournée, e racchiude insieme il tributo all’artista che lo aveva creato e al padre di lui che l’aveva scritto, e soprattutto il piacere per il pubblico di poter godere di un teatro della migliore tradizione: problematico, coinvolgente, e insieme, irresistibilmente divertente.

Non ti pago (ancora stasera e domani al Massimo nella stagione del Cedac, e poi in tournée, a fine febbraio all’Argentina di Roma) è un testo famosissimo, scritto nel 1940 e quindi annoverato tra quelli della «cantata dei giorni pari», che attorno alla contesa su chi debba appropriarsi di una sostanziosa vincita al lotto, fruga impietosa nelle credenze, nei luoghi comuni, nei comportamenti e nei «valori sociali» che discendono da una delle massime religioni diffuse al sud (allora, oggi si grattaevince dovunque), ovvero tutto quanto discende dal culto della Smorfia, la cabala misteriosa dei numeri, i suoi poteri e le sue frustrazioni.

Perché Ferdinando Quagliuolo, protagonista del racconto, gestisce il banco del lotto ereditato dal padre, e proprio questi avrebbe suggerito in sogno i numeri fortunati da giocare non a lui, ma al giovanotto, suo dipendente, che egli non sopporta, benché questi sia innamorato e pure corrisposto (o forse proprio per questo) della figlia. Nella disputa paradossale su chi avrebbe avuto diritto a quel sogno fortunato, escono fuori aspetti del costume e delle persone di cui Eduardo è stato maestro, e che vedono assieparsi camerierine vanesie e vicini invadenti, fino all’azzeccagarbugli di rione e al parroco con tanto di tonaca .

Addirittura si rintracciano elementi che torneranno anche venti anni dopo, nella sua scrittura, aggiornati e ancor più interiorizzati. Così come finisce presto per catturare lo spettatore di oggi, quel divenire valore assoluto di credenze a un passo dalla superstizione. Se quel testo mostrava la caduta di ogni altra speranza, nel momento in cui divampava la seconda guerra mondiale, oggi la decadenza e la desolante confusione dei valori sociali e civili ci rende altrettanto sensibili a quella guerra tra poveri, e illusi.

Luca De Filippo nella sua messinscena ha segnato un punto centrale, nell’affinamento registico e interpretativo che era andato maturando negli anni. A costo di dissipare, o snellire, il pericolo di un mero «museo eduardiano», per mettere piuttosto in primo piano i nodi vitali di quelle invenzioni geniali di drammaturgia, e renderle piuttosto assai utili a comprendere l’oggi. Senza tradire lo spirito originario.

Come del resto dimostra il bel lavoro della compagnia, dove Gianfelice Imparato, con il ricco bagaglio della sua esperienza di attore, ha preso il posto di Luca De Filippo come uomo del banco del lotto. E attorno a lui, a cominciare dall’attrice Carolina Rosi, tutti sembrano decisamente acquistare una più consapevole maturità, senza rinunciare ai tempi e allo spirito di quelle battute e quei gesti che restano un capolavoro di comicità, per quanto particolarmente amara.