Dietro la sua apparenza godibile e accattivante, Il sindaco del rione Sanità compie con Mario Martone una operazione che ha sicuramente del coraggio e del genio. Incrociando le valenze reciproche di una solida commedia di Eduardo del 1960 con il gusto gomorrista di diversi film e serie tv di successo, ce ne mostra di entrambe aspetti inediti e meno esteriori, che ne moltiplicano il fascino e il significato. L’operazione, come è noto, era nata un paio d’anni fa a San Giovanni a Teduccio, nella cintura partenopea, dove il testo di Eduardo era stato realizzato in una scuola salvata dal degrado ad opera del Nest, formazione teatrale che coraggiosamente vi agisce da anni sotto la guida di Francesco Di Leva (protagonista «sindaco» sia dello spettacolo che del film). Grazie alla collaborazione degli eredi De Filippo, ne era nata una rappresentazione di grande impatto e cura, dove si poteva scoprire una sorta di «pudore» da parte dell’autore nell’ammettere la forma se non camorrista certo al limite della legalità di quell’uomo, di valore e di rispetto, che badava a garantire la convivenza (quasi una forzata armonia) tra poteri e princìpi pronti al conflitto, anche sanguinoso, dentro la società civile. Quasi che Eduardo non volesse ratificare sulla scena, ancora in pieno boom, quello che già intravedeva nella complessa quotidianità del sud, e che di lì a pochi anni sarebbe degenerato. Quel grand’uomo di rispetto viene appositamente definito ‘o sindaco, titolo civile e democratico. Ed era uno spettacolo di grande presa, con pesi e contrappesi drammaturgici di cui Eduardo era maestro.

NEL FILM ritroviamo quasi tutti gli attori dello spettacolo (tranne Giovanni Ludeno nel ruolo del medico clandestino, ultimo depositario di una morale, cui è subentrato sullo schermo Roberto De Francesco, con struggente pathos). Restano come antagonisti all’ultimo sangue l’ormai affermato Di Leva e Massimiliano Gallo (figlio a Napoli dell’arte sacra del padre cantante) che con straordinario rigore è il fornaio da «mettere in riga». Ma quello che più colpisce, a vedere il film ora, è che se al teatro eduardiano l’attualizzazione e la più giovane età degli interpreti toglieva sulla scena ogni patina moralistica o assolutoria, quella stessa teatralità dà ora un senso e una «morale» fortissimi a tanti film di camorra cui siamo abituati: ce ne fa annusare un’anima e dei sentimenti, che suppliscono a quanto la società e la sua organizzazione non possono o vogliono garantire più per nessuno.