A Edoardo Bruno, critico cinematografico, regista, fondatore e direttore di «Filmcritica», morto ieri a Roma all’età di 92 anni, usavo dire scherzando (ma non tanto) che era una specie di mago, di magico prestigiatore capace di coordinare e armonizzare i contributi più disparati, far sì che apparissero frutto di chissà quale volontà ordinatrice, senza che in realtà nulla mai venisse imposto.

Nel 1950, anche in seguito all’incoraggiamento di André Bazin, con cui strinse amicizia al Festival di Cannes, fondò e fino alla fine diresse la rivista «Filmcritica», sua creatura prediletta, di cui furono partecipi filosofi come Umberto Barbaro e Galvano Della Volpe, e un regista come Roberto Rossellini, fornendo un prezioso contributo a svecchiare l’ambiente delle riviste cinematografiche italiane, che ancora si barcamenavano tra formalismi e ideologismo contenutistico.

HA INSEGNATO cinema alle università di Palermo, Salerno, Roma e Firenze, ma possiamo dire che ha insegnato soprattutto a amare certi film e a leggerli in un certo modo. Quale modo? Si è sempre trattato, per lui, di valorizzare il contenuto di pensiero del film, il suo spessore filosofico, basato soprattutto sul montaggio, senza preconcetti contenutistici, senza alcun partito preso.

Da questo punto di vista, rientrano perfettamente l’invenzione del Premio Barbaro per il miglior libro di cinema, nonché quella del Premio Campidoglio Maestri del Cinema, conferito a registi prestigiosi come Scorsese, Godard, Clint Eastwood ecc. Amava il cinema di un amore appassionato, e lo considerava l’arte più affascinante, capace di trasmettere non solo sogni, ma anche di far luce sulla complessità dei rapporti tra gli esseri umani tra loro e col mondo.

Nel 1969, diresse anche un film, La sua giornata di gloria, interpretato da Carlo Cecchi e Philippe Leroy, che esprime molto bene, sul piano creativo, la sua concezione politico-filosofica del cinema. In piena ondata sessantottesca, il film pone inquietanti interrogativi sulla lotta armata, il tradimento, le contraddizioni della violenza, ispirandosi senza cedimenti a una dialettica di tipo brechtiano. C’è solo da rimpiangere che, per un complesso di ragioni, questo sia rimasto un esempio unico.

OCCORRE qui ricordare il libro di Fabio Segatori, L’avventura estetica, uscito nel 1996, che fa la storia della rivista «Filmcritica». È stata una storia durante la quale si sono verificate anche scissioni e controversie, ma una cosa bisogna dirla: anche quelli che a un certo punto hanno lasciato la rivista per prendere altre strade o, come, vi sono tornati dopo un breve periodo, sono rimasti in fondo sempre marcati dall’esperienza di «Filmcritica», né hanno mai potuto rinnegare una certa formazione.

Notevole, e del pari mai accademica, la sua produzione libraria, di cui ricordiamo l’ultimo frutto, L’occhio, probabilmente. Un percorso poetico-politico, edito nel 2016 da Manifestolibri. Libro costruito, o piuttosto de-costruito con l’aiuto di Daniela Turco, in cui il riferimento al titolo d’un film bressoniano (Il diavolo, probabilmente) traccia un percorso aperto, continuamente cangiante. Si passa, allora, da Godard, Truffaut Straub-Huillet, e gli altri autori della nouvelle vague, ai grandi ribelli hollywoodiani, Stroheim, Welles, Scorsese, senza dimenticare Hitchcock o Spielberg, e gli outsider del cinema sovietico, in prima linea Vertov, con l’occhio destrutturante della sua macchina da presa che ci osserva fin dalla prima pagina.

CHI SCRIVE si vede ancora bussare, un po’ emozionato, alla porta della redazione a piazza del Grillo. A riceverlo, una persona disponibile, pronta ad accogliere ogni contributo, al di fuori d’ogni preconcetto. Una lezione di libertà, anche da qualunque tentazione accademica, pagata sempre con la ricerca di una costante indipendenza, rifiutando qualunque protettorato ideologico.

Addio Edoardo. Hai avuto la soddisfazione di veder uscire il numero 700 della tua-nostra rivista, soddisfazione peraltro rattristata dalla consapevolezza che si sarebbe trattato dell’ultimo numero cartaceo, per ragioni economiche cui sono rimaste colpevolmente indifferenti istituzioni per le quali la parola cultura non significa più niente. Tutti i redattori e (ne sono sicuro) tutti i lettori di «Filmcritica» ti salutano come un Maestro.