«Se il peggioramento del clima è più rapido del previsto, come ci ha detto l’Ipcc, è assolutamente necessario accelerare gli impegni di decarbonizzazione che devono rientrare nelle priorità dei governi. Al momento, però non si vede corrispondenza tra la gravità della crisi climatica e l’effettivo impegno della politica, anche in Italia».

Edo Ronchi

Edo Ronchi, ex ministro dell’Ambiente, oggi è presidente della Fondazione Sviluppo Sostenibile e dell’iniziativa Italy for climate, creata per coinvolgere le imprese verso la neutralità delle emissioni.

Ronchi, a un paese come l’Italia converrebbe essere in prima linea sul fronte della decarbonizzazione?

Io penso proprio di sì. Per vari motivi: l’Italia si trova nel Mediterraneo, un’area critica dal punto di vista del rischio climatico. Importa combustibili fossili, dunque disporre di fonti di energia rinnovabile consentirebbe di tagliare la bolletta energetica. Poi c’è un Made in Italy manifatturiero molto legato all’idea di qualità e bellezza che non può non essere anche neutro sul piano climatico, oltre a settori avanzati nella green economy. Di conseguenza, potrebbe fare di più.

Cosa manca?

Basta guardare i numeri. Avremmo bisogno di aumentare di 7/8 MW aggiuntivi all’anno le rinnovabili elettriche, mentre oggi queste stanno crescendo ad un ritmo che è al sotto del MW. Dove sono le misure per arrivarci? Il nostro governo ha fatto il Piano nazionale per la ripresa e la resilienza (Pprr) senza aggiornare i target climatici, ma con i vecchi obiettivi della riduzione della CO2 del 40% entro il 2030, mentre l’Europa lo ha innalzato al 55%: con questa sfasatura è difficile valutare come saranno allocate le risorse. All’Italia in definitiva manca una legge per la protezione del clima che fornisca a tutti i settori un orizzonte sulla traiettoria della decarbonizzazione. Ce l’hanno paesi come il Regno Unito, la Germania, la Francia, la Spagna, noi no.

A cosa potrebbe servire questa legge?

La legge servirebbe a definire gli obiettivi di decarbonizzazione in modo che siano vincolanti e non dipendano dagli indirizzi del singolo governo, a meno che cambi la legge. Servirebbe inoltre a dare un quadro certo di riferimento ai diversi settori, a ripartire in maniera vincolate l’impegno di riduzione tra i settori, a stabilire gli strumenti per raggiungere gli obiettivi. Per inciso: la Corte Costituzionale tedesca, accogliendo un ricorso, ha cassato la legge tedesca sul clima perché riduceva troppo poco le emissioni: da noi un provvedimento del genere non sarebbe possibile perché noi una legge non ce l’abbiamo. In questo periodo di pandemia abbiamo sperimentato l’importanza di avere un Comitato tecnico-scientifico super-partes, ma sull’emergenza climatica non ce l’abbiamo. Servirebbe a sganciare il controllo delle emissioni e dell’efficacia delle misure sul clima dalle maggioranze politiche transitorie. Un Comitato del genere va istituito per legge. Poi c’è la questione della ripartizione dell’impegno tra Regioni e Comuni, e anche questo va deciso per legge. Come si fa a stabilire che dopo il 2035 non possono più essere immatricolate automobili con il motore endotermico, se non con una legge? Per non parlare della riforma del settore fiscale, nella quale non si può pensare di non inserire qualche forma di carbon pricing, visti i danni che l’anidride carbonica crea al clima.

Perché non ce l’abbiamo ancora una legge sul clima?

Io penso perché noi abbiamo maggioranze parlamentari e di governo che su questa questione non sono affatto convinte di impegnarsi a fondo.

Dal nuovo ministero della Transizione ecologica arriva qualche segnale?

A livello di dichiarazioni sì, ma a livello operativo il ministero è ancora in fase di riorganizzazione e stenta ad essere pienamente operativo. Aspettiamo. Il ministro Cingolani potrebbe almeno evitare di sottolineare in ogni occasione le difficoltà della transizione ecologica…

Considerato l’aggravarsi della situazione, dovremo anche affrontare il tema dell’adattamento climatico nei territori, città per città, strada per strada. In Italia se ne parla abbastanza?

Noi abbiamo fatto un lavoro lo scorso anno sui piani di adattamento e abbiamo visto che è un genere sconosciuto nelle amministrazioni locali, salvo rare eccezioni. Una legge sul clima dovrebbe prevedere piani di adattamento obbligatori che indichino a quali rischi i cittadini sono esposti e come affrontarli.

A livello globale, il problema della decarbonizzazione secondo lei è più politico o tecnologico?

Dal punto di vista della politica globale sappiamo che ci sono paesi che frenano e altri invece che sono più disponibili, per varie ragioni e interessi particolari. L’idea di partire tutti insieme, quando tutti sono pronti o d’accordo, però, non funziona, rallenta. Invece la prima scelta politica da fare è partire comunque, unilateralmente, puntando a trascinare i ritardatari, dimostrando che l’economia della neutralità per il clima è competitiva. Lo stesso possiamo dire per le tecnologie: per raggiungere la neutralità climatica ne avremo bisogno di aggiuntive, ma intanto cominciamo ad usare quelle migliori che abbiamo a disposizione, con cui può già fare tantissimo.

C’è invece chi teme la perdita di competitività, soprattutto nei confronti di paesi come la Cina che ha obiettivi climatici diversi.

Io sono convinto che chi riesce a tagliare le emissioni si aggiudica dei vantaggi competitivi. Supponiamo di produrre biometano dai fanghi dei depuratori, eliminando i costi di smaltimento. O di sostituire le plastiche con bioplastiche dagli scarti del settore agro-alimentare. Io vedo vantaggi economici che creano competitività. Se la Cina fosse al riparo dalla crisi climatica potrebbe ignorare questi aspetti, ma non può farlo. Inoltre, l’Ue ha già deciso con gli Usa di adottare una Border Carbon Tax per respingere il dumping ambientale e proteggere l’occupazione. Nella transizione ecologica ci dobbiamo anche proteggere.