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Editoria, tanto tuonò che piovve

Ri-mediamo «Tanto tuonò che piovve», frase attribuita persino a Socrate, ben si attaglia alla triste storia del fondo per il pluralismo e l’innovazione dell’informazione. Se ne è parlato tante volte su […]

Pubblicato quasi 6 anni faEdizione del 17 ottobre 2018

«Tanto tuonò che piovve», frase attribuita persino a Socrate, ben si attaglia alla triste storia del fondo per il pluralismo e l’innovazione dell’informazione. Se ne è parlato tante volte su il manifesto, da ultimo con l’esauriente articolo a firma Matteo Bartocci dello scorso venerdì 12 ottobre. Tuonava, ma ora piove davvero. Con fulmini ben mirati. La novità è duplice. Da un lato in una delle proposte della legge di bilancio si parla del graduale azzeramento del fondo; dall’altro il ministro dell’economia Tria ha annunciato, nel corso dell’audizione presso la commissione parlamentare di vigilanza, l’abolizione del cosiddetto extragettito del canone rai, circa 100 milioni di euro tra giornali, radio e televisioni locali. La somma è zero, più o meno.

L’ammontare delle risorse che vanno alle testate non raggiunge, infatti, i sessanta milioni. Altro che gradualità. Il combinato disposto, come dicono i giuristi, potrebbe suonare da campanello d’allarme per prestiti e fidi bancari, essendo gli istituti di credito assai spicci nel dare-avere.
La compagine di palazzo Chigi, cui una parte della sinistra ha voluto guardare magari con simpatia, sta riuscendo dove neppure Berlusconi e Tremonti: far chiudere una bella fetta della comunicazione italiana, con effetti drammatici sull’occupazione e sull’intera filiera: dai centri stampa, alla distribuzione, alle edicole. Già si legge pochissimo, ci racconta il Censis.

Che accadrà? Si abroga la cultura? Del resto, una platea di cittadini sudditi e ignoranti è ciò che sembra stare a cuore agli attuali potenti. Avvezzi a rompere le stratificazioni intermedie per valorizzare il rapporto diretto tra un gruppo di ottimati e la folla (né classi, né popolo, bensì social-corpi), gli odierni leader hanno fastidio per le voci libere: critiche o anche solo non osannanti.

Anni fa, in un’indimenticabile serata dedicata alla Costituzione, l’ex presidente Scalfaro – in bellissimo dialogo con Pietro Ingrao – fece una puntualizzazione storica che ora torna di attualità. Disse che tanti come lui, conservatori e borghesi, non si accorsero subito dell’avvento del fascismo. La scossa del risveglio furono la promulgazione delle leggi razziali e la soppressione della libertà di espressione. Il decreto di Salvini e la repressione dei migranti forse non sono ancora razzismo, ma ci si avvicinano e lo evocano. Le contumelie e le minacce contro giornalisti e programmi non allineati hanno creato un clima pesante in settori in cui la prevalenza del precariato senza tutele offre il fianco alle censure e alle auto-censure.

E’ questo che si vuole? E’ mai possibile che in una transizione prepotente e rischiosa dall’età analogica al mondo digitale non si pensi ad una strategia adeguata e si prendano –invece- le briciole da un fondo ormai bonificato nei criteri di erogazione e ridotto a ben poco nell’entità?

Ecco, il buongiorno si vede dal mattino, come dice un’altra massima eterna. E la qualità del diritto all’informazione è un sintomo chiaro dello stato delle cose. Quindi, la proposta uscita dal consiglio dei ministri ci racconta un pezzo di verità sulla natura profonda della compagine di maggioranza.
Facile prendersela con i soggetti deboli e non supportati dal mercato. Meno agevole è aprire uno scontro serio con gli oligarchi della rete, che hanno in pugno i dati e le identità di una cospicua fetta di umanità. E che pagano meno tasse, in proporzione, di un piccolo esercizio commerciale. Da lì, senza inventarsi niente, arriverebbe –senza pesare sui semplici cittadini- un fondo per l’editoria alla n potenza.

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