Charles Bettelheim approfondì nei suoi scritti il tema della transizione. E con lui diversi autori di ieri e di oggi, a partire da Rossana Rossanda. Ci si dovrebbe pensare, almeno per una volta, ora che si riapre la ferita dei giornali a rischio di chiusura.

Come in un vecchio giradischi impazzito, il refrain delle risorse destinate al Fondo per l’editoria nella legge di stabilità ritorna. È un’ossessione: da 500 milioni di euro si è arrivati in pochi anni a 23 milioni. La situazione è gravissima, legata al filo esile di qualche emendamento depositato da Sinistra, ecologia e libertà, nonché dal partito democratico. Quest’ultimo, peraltro, ha in mano le leve del governo e stupisce che sia costretto ad auto-emendarsi.

Sulle pagine dell’Avvenire qualche giorno fa è stato sollevato il problema dal giornalista missionario don Giulio Albanese e da Michele Zanzucchi di Città nuova, voci di preoccupazione per la cultura di massa in sintonia con il papa di Roma Francesco. Più in generale e con infaticabile tenacia, si muove la campagna #MenogiornaliMenoliberi, promossa e sostenuta dalle associazioni di settore e dai sindacati.

Chiariamo. Si tratta della tutela di una componente cruciale dello spazio pubblico, delle libertà e dei diritti. C’è, in verità, una gran voglia di bavaglio: da alcuni punti del testo sulla diffamazione, alla delega sulle intercettazioni, alla conquista «marchionnesca» della Rai. Il bavaglio di mercato non ha forse le sembianze di un pugno da knock out ma certamente quelle del lento avvelenamento.

Viene messa in causa la possibilità dell’argomentazione del discorso, di cui ha scritto sempre il sociologo Franco Rositi. Per dire, insomma, che la lotta in corso non è la nostalgia di un passato che fu, bensì l’opportunità concreta di agire la transizione. Dall’era analogica all’età digitale. Tra l’altro, sta prendendo piede (giustamente) una versione meno cannibalesca di quel passaggio, secondo cui la carta non è affatto destinata a scomparire.

Sì, tutto cambierà e guai se i giornali non ne tenessero conto, applicandosi al cambiamento. Ma con l’on line è immaginabile una convivenza sinergica, piuttosto che un duello finale. In giro per il mondo se ne parla e si studiano progetti. Qui, non si ha il coraggio di investire una cifra significativa per garantire modalità rispettose del pluralismo e dell’occupazione.

È noto persino agli economisti di fede liberista che, per ristrutturare, serve una scelta strategica, inizialmente onerosa. Invece, il governo che si vuole innovativo toglie sia ai «poveri» dentro il Fondo sia ai «ricchi» impegnati nei riassetti (spesso pesanti e insidiosi) in virtù di una norma introdotta dall’ex sottosegretario Legnini.

A una transizione, in verità, sembrano pensare i testi di riforma presentati da Pd e Sel, che istituiscono un Fondo per l’informazione e suppongono una copertura finanziaria stabile. Basterebbe un lieve prelievo sui proventi degli Over the top (Google, Facebook e omologhi) per garantire un futuro meno luttuoso.

Se il parlamento ha avviato l’iter per il riordino del sistema, fermo alla legge 416 del 1981, è immorale davvero favorire l’agonia dei soggetti meno tutelati dal mercato. Perché locali, di opinione, cooperativi e indipendenti.

O è la morte che vuole il «pensiero unico»? Eran duecento, eran giovani e forti. Eppur: dopo la recente chiusura del Corriere mercantile, ecco da ultimo l’uscita di scena della storica Voce della Romagna.

«Romagna mia»…. si canta e si balla. Già, sul Titanic: metafora di sempre.