Il sottosegretario con delega all’editoria, Vito Crimi del Mov5Stelle, avrà i suoi grattacapi. Il settore, infatti, versa in una situazione di crisi strutturale. Quest’ultima è la combinazione della più complessiva vicenda economica con la storica trasformazione tecnologica in corso.

La frontiera tra l’era analogica e quella digitale è assai più problematica e complessa di quanto i cantori dell’innovazione abbiano fatto credere.

Il lavoro precario, spesso persino dai tratti schiavistici, costituisce al momento il lato duro della transizione. Gli editori sono arrivati all’appuntamento impreparati e chiusi in fortezze ormai fragilissime; i proprietari dei dati e degli algoritmi con cui si compongono le odierne strutture informative hanno in mano la diffusione dei saperi, con inaccettabili vantaggi fiscali; le organizzazioni sindacali hanno il fiatone.

Inoltre, gli istituti pensionistici rischiano di non reggere, perché il calo occupazionale è costante.

Insomma, servono misure di intervento straordinarie per evitare crolli, collassi e disoccupazione selvaggia. Ed è indispensabile un vero disegno riformatore, che introduca norme antitrust adeguate al tempo storico e valorizzi gli investimenti produttivi.

Da anni si evoca la necessità di convocare gli “Stati generali dell’editoria”, per mettere a punto un progetto non effimero.

La carta e la rete possono convivere. Anzi, laddove si sono avviate sperimentazioni virtuose, le due piattaforme sono diventate sinergiche.

Ecco, questo è lecito attendersi da chi ha scommesso sul cambiamento.

Non sia mai che la visuale si fermi al capitolo, importante ma una goccia nella tempesta, del ”Fondo per il pluralismo e l’innovazione dell’informazione”. Su quest’ultimo si sono dette e scritte parole talvolta improprie, soprattutto perché non aggiornate.

I “fasti” antichi sono un ricordo.

La sequenza normativa composta dalla legge n.103 del luglio 2012, dalle disposizioni della l.n.198 dell’ottobre 2016 e dal decreto legislativo n.70 del luglio 2017 ha già parecchio bonificato il comparto.

Non ci sono né finanziamenti ai fogli di partito, né a quelli specializzati; mentre il resto degli aventi diritto è soggetto a griglie piuttosto rigide, dal vincolo dei contratti a tempo indeterminato, a un rigoroso rapporto tra diffusione e vendite. Misure volte alla trasparenza hanno – almeno in parte – tolto il “Fondo” dal calderone dell’assistenzialismo dalle mani bucate.

Intendiamoci. Stiamo parlando di una quota assai modesta di finanziamento (ora parzialmente prelevato dai proventi del canone della Rai): 44 milioni di euro per il 2017. Un quinto della cifra di qualche anno fa.

A riprova di simile contrazione, va ricordato che almeno 50 testate hanno dovuto chiudere i battenti. E del centinaio residuo, la metà vive con angoscia.

Una simile linea di azione pubblica non è un isolato caso italiano. In Europa, le risorse per i giornali arrivano pure dallo stato, fino al tetto record di 1,2 miliardi di euro della Francia.

Non solo.

I quotidiani “forti” nel mercato da diversi anni non godono di alcun vantaggio diretto, fatta esclusione per pochissime voci, in particolare le tariffe telefoniche agevolate. E le organizzazioni delle edicole chiedono ancora la completa attuazione della legge n. 96 del giugno 2017.

È dal 1981 – con la legge 416 – che non viene promulgata una riforma compiuta. Fu il risultato di un fronte che mise insieme la federazione degli editori, il sindacato dei giornalisti, Cgil, Cisl e Uil. Era il mondo di prima. Ma il futuro è cominciato ieri.