«Je so’ pazzo” cantava il grande Pino Daniele e così dovrebbe bisbigliare davanti allo specchio Matteo Renzi, capo di un governo che sta assistendo inerte alla morte in diretta di circa duecento giornali.

Si tratta delle settanta testate di opinione, locali e cooperative ricomprese nel Fondo dell’editoria, cui vanno aggiunti i centotrenta fogli religiosi che pure attengono all’intervento pubblico. E si badi bene che forme di presenza dello stato esistono in Europa pressoché ovunque.

Quindi, vade retro populismo liberista, quello che intende tagliare le risorse del Fondo per agevolare i gruppi editoriali di maggiore potenza mercantile. Del resto, nella recente legge di stabilità, varata a fine d’anno, è già avvenuta la prova generale, visto che nulla è stato fatto per il non profit e parecchio è andato alla ristrutturazione della stampa maggiore.

Ecco, siamo al punto di catastrofe, lungamente annunciato: per quest’anno sono previsti – al netto di altre voci – venti milioni, cioè la fine del settore, cui andavano cinque anni fa quasi duecento milioni. Per la pura sopravvivenza occorrono subito almeno cinquanta milioni, per mettere in condizione le aziende (sì, sono imprese, non astrazioni dello spirito) di scrivere bilanci attendibili.

Altrimenti vi sarà la fila degli amministratori davanti agli sportelli dei fallimenti nei tribunali della Repubblica.

Chissà se Renzi e il sottosegretario Lotti (coadiuvato dal solerte Funiciello, che almeno ha discusso a lungo lo scorso lunedì con le rappresentanze del settore) non vogliano rileggere quel verso bellissimo di Pino Daniele, per evitare che l’attuale esecutivo passi alla storia come il protagonista di un crac.

Infatti, basterebbe «un poco di zucchero», un piccolo emendamento da apportare al testo del decreto «mille proroghe«, ora alla Camera dei deputati: emendamento volto a prorogare – appunto – la rata annuale che il governo deve alle Poste per un vecchio credito che queste ultime rivendicano: 50,8 milioni.

Certamente altro ci vuole, a partire dalla sospirata riforma del sistema. Ma, come diceva Pina Bausch a proposito della danza, anche l’editoria ha bisogno dei suoi corpi, la cui eutanasia rende inverosimile qualsiasi chiacchiera su nuove leggi «organiche».

Al contrario, proprio una soluzione certa per i prossimi due-tre anni renderebbe credibile l’opportunità di varare un articolato in linea con la stagione digitale. Occorre una transizione definita, che prenda le mosse proprio dalla trasformazione del logoro capitolo di spesa attuale in un «Fondo per la libertà di informazione», agganciato ad un prelievo percentuale sui proventi dei nuovi ricchi del villaggio globale, i cosiddetti «Over the top« (da Google, ad Amazon in poi), cui venga finalmente imposto di pagare le tasse in Italia per le attività svolte nel paese. Il luogo c’è, la famosa delega fiscale. Dopo la gravissima «stecca» dell’abbuono del 3%, con il governo preso con le mani nella marmellata del conflitto di interessi, è il momento di dare un segno di coraggio.

Come detto, il sostegno della parte debole dell’editoria – ivi compresa l’emittenza radiotelevisiva locale – può essere caricato legittimamente sulla componente abbiente, che finora ha tolto molto senza redistribuire granché. Finalmente, poi, nell’articolato riformatore si affronterebbero i nodi irrisolti del copyright e dell’incoraggiamento di nuove esperienze ora tenute fuori dal Fondo da un’antica logica conservativa.

Insomma, attacchiamoci alla speranza di Rossella O’Hara: forse domani è un altro giorno.