Giovedì mattina alla Camera dei deputati si terrà una conferenza stampa sulla crisi (finale?) dell’editoria promossa unitariamente da: Alleanza delle cooperative italiane della comunicazione, Federazione della stampa, Federazione settimanali cattolici, Federazione dei liberi editori, Associazione stampa online, Unione stampa periodica, Cgil, Articolo 21 e Mediacoop.

Vuole essere un appello al Governo e al Parlamento per salvare il pluralismo dell’informazione nazionale e locale. Mentre, infatti, si ipotizzano Stati generali del settore, riforme più o meno organiche, quaranta testate del mondo cooperativo e non profit hanno già chiuso i battenti e altri mille professionisti hanno perso il posto di lavoro. Innumerevoli volte è stato denunciato un simile rischio, dopo i tagli costanti subiti dal Fondo per l’editoria, pur rivisto negli anni recenti con un’opera di moralizzazione dei criteri di attribuzione dei contributi.

Si è passati da 506 milioni di euro del 2007 agli attuali 140, comprensivi del debito con le Poste e della quota prevista per le convenzioni della Rai (non poteva il Governo tagliare 100 e non 150 milioni all’azienda pubblica?).

[do action=”citazione”]Il fondo pubblico per l’editoria è passato dai 506 milioni del 2007 ai 50 del 2014[/do]

Quindi, ai giornali vanno solo 50 milioni, che diverranno sì e no 40 il prossimo anno. Per arrivare alla linea di galleggiamento ne mancano una settantina. Mentre i cosiddetti «Over the top» (Google e i suoi grandi fratelli) prosperano, la carta stampata muore. Il caso recente de l’Unità e quello annunciato di Europa sono le punte dell’iceberg di una desertificazione allarmante. La conclamata transizione alla diffusione on line e all’era digitale ha effetti «collaterali» mostruosi: un cimitero piuttosto che un pranzo di gala.

Ecco, si chiede di vivere, di immaginare il definitivo passaggio alla stagione della rete come un percorso da governare con sapienza; non come una resa incondizionata agli «spiriti animali» del capitalismo. Quest’ultimo –prima che sia troppo tardi, ci ammonisce Thomas Piketty nel suo straordinario recente volume – va controllato democraticamente. Qui sta il punto. Se si dovesse verificare la moria delle testate meno inserite nel «libero» mercato, sarebbe trafitta nelle fondamenta la costruzione dello Stato moderno. Altro che innovazione.

Senza una pluralità di voci e di espressioni culturali vincerebbe un terribile pensiero unico, degno del passato più oscuro.

Davanti a simile precipitazione della crisi è doveroso un immediato intervento normativo, in attesa della riforma. Serve una normativa aggiornata del sistema dei media, figlia di una stagione di soggezione alla televisione del conflitto di interessi.

Che senso ha spezzettare l’iniziativa, intervenendo – ad esempio – sul canone della Rai con un decreto legge (così parrebbe, almeno), lasciando in agonia decine e decine di quotidiani e periodici?
Si riveda una volta per tutte la natura Fondo dell’editoria, trasformandolo in un vero e proprio Fondo per la libertà di informazione, in grado di evitare la caduta agli inferi delle componenti fuori dal coro.
Dove si trovano le risorse? Si guardino i bilanci del settore integrato delle comunicazioni e si vedrà che non è così difficile.

E poi, un intervento dello stato –magari a termine- rimane essenziale per contribuire al rilancio dell’informazione. O si preferisce un’Italia via via marginalizzata e senza cultura? Lettrici e lettori stanno diminuendo pesantemente e un giorno dopo l’altro – come cantava Luigi Tenco – l’editoria esce di scena, senza neppure lacrime e pentimenti da parte di chi dovrebbe parlare, ma non dice e non decide.